I SOFISTI E SOCRATE

di ANTONIO LIVI. I SOFISTI E SOCRATE. I problemi della filosofia e la soluzione dei Sofisti. Quella dei Sofisti, più che filosofia è ideologia. Socrate e la scoperta della vera filosofia. La vita. Fonti storiche per ricostruire il pensiero socratico. Platone: Socrate è il maestro del dialogo, con lo scopo di insegnare la virtù. Aristotele: Socrate è lo scopritore dell’universale e dell’induzione. Il metodo filosofico

“Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia”


Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005



CAPITOLO PRIMO



I SOFISTI E SOCRATE






Nella Grecia del V sec. av. Cr. il potere politico non è più in mano agli aristocratici, e la democrazia caratterizza la vita delle città-Stato, a cominciare da Atene che nell’epoca di Pericle (492-429 av. Cr.) è diventata il centro della vita commerciale, culturale e politica dell’intera Grecia. Mutato il clima sociale, cambiano gli atteggiamenti riguardo alla cultura, e anche la pratica della filosofia subisce una radicale trasformazione. Fino ad allora l’orizzonte della ricerca era segnato dal problema di scoprire con il pensiero la “arch ([arché]  = principio)”, ossia la spiegazione metafisica del “kosmoV ([kosmos] = mondo ordinato)” come quadro concettuale nel quale trovavano una collocazione logica sia le osservazioni fisiche (astronomia, biologia) che le tradizioni religiose e gli stessi miti delle origini; ma adesso questo problema non è più al centro degli interessi culturali dei Greci. Non che la speculazione metafisica sia del tutto accantonata (non sarebbe stato possibile, dopo tante suggestive proposte che si erano succedute, da Pitagora a Democrito, da Eraclito a Parmenide, con le relative scuole filosofico-religiose fiorite nella Magna Grecia), ma si determina un interesse molto più accentuato per il problema logico (Che cosa possiamo effettivamente conoscere con certezza? I sensi ci dannno solo immagini parziali e fuggevoli della realtà? L’intelletto può trovare una verità universale, condivisibile da parte di tutti?)  e di conseguenza viene in primo piano anche il problema antropologico (com’è fatto l’uomo? quali sono le sue reali possibilità di afferrare la verità delle cose? che rapporto c’è tra conoscenza e scelte morali?), per effetto dell’importanza che assume nella vita politica la diffusione delle idee. La città greca, infatti, si rende sempre di più consapevole dell’effetto profondo e durevole che hanno le concezioni filosofico-religiose nelle scelte politiche dei cittadini, chiamati a decidere su nuovi quesiti suscitati dallo spirito critico dei filosofi: riformare o rafforzarele leggi vigenti nella città? mantenere o abolire il  culto pubblico degli dèi locali, ossia della religione tradizionale? La città va governata dai sapienti più accreditati o dagli amministratori più accorti? Il criterio per selezionare i giudici è la virtù (l’onestà, il disinteresse) oppure la capacità di amministrare la giustizia a favore del proprio gruppo politico? E se si tratta di scegliere in base alla virtù, in che cosa consistono propriamente la giustizia e la saggezza? Il bene della città consiste nella potenza militare o piuttosto va ricercato nella pace operosa e nella fioritura delle arti e della cultura? Insomma, per la prima volta nella storia della filosofia sorge il problema di come apprezzare e di come gestire nella giusta misura l’innegabile  dimensione pragmatica e pratica (etica, religiosa, politica, pedagogica, economica, tecnica) della sapienza. Una società evoluta non ignora più il valore del sapere (fisico e metafisico) per la vita, ma si apre tutta una complessa problematica sul rapporto tra sapere e potere, tra conoscenza dei fini e scoperta dei mezzi, tra verità in sé (la pura teoresi) e verità per la prassi (la teoresi pratica, la dottrina morale e politica, la scienza in vista delle applicazioni tecnologiche). Le società nelle quali la vita politica è in continua evoluzione e il progresso tecnico è sempre più accentuato tendono a risolvere questa complessa problematica accentuando l’interesse per il valore pragmatico delle conoscenze: è il “pragmatismo” (sempre connesso a un implicito scetticismo o relativismo), che vediamo oggi così diffuso nelle società progredite dell’Occidente e sopratttuo negli Stati Uniti d’America, e che può far comprendere ciò che succedeva in Grecia tra la fine del V e l’inizio del IV secolo av. Cr.

Dopo la guerra del Peloponneso, le città greche non conoscono più un periodo relativamente lungo di pace, ma solo ingterminabili contese tra opposte fazioni e continui mutamenti al vertice  del potere politico. La morte di Pericle (anno 429) segna il momento più turbolento della vita politica della Grecia, che mai aveva avuto né il sentimento né la struttura di una nazione (tantomeno di uno Stato unitario), e doveva far fronte a una inquietante dialettica di frammentazione  e di instabilità anche all’interno delle singole  “poleiV ([poleis] = città-Stato)”. La vita politica e civile era vissuta all’insegna dell’attenzioe ai rapidi mutamenti, conil desiderio di capire subito il senso delgi avvenimenti e di vagliare prudentemente le proposte che venivano dai tanti diversi maestri e capipopolo. I giovani, in modo particolare, si affacciavano alla vita pubblica con l’ansia di capire i problemi che si agitavano e  di avere gli strumenti intellettuali per intervenire attivamente e risolverli. Gli anziani, da parte loro, necessariamente propensi a conservare le tradizioni civili e religiose della città (oltre che il loro potere personale), guardavano con preoccupazione l’avvicendarsi dei maestri e degli agitatori politici e il sorgere di nuove scuole di pensiero, e si interrogaavano su quale dovesse essere la migliore educazione delle nuove generazioni di cittadini.

 



1. I problemi della filosofia  e la soluzione dei Sofisti.



Nel quadro storico-sociale che abbiamo sommariamente abbozzato, il problema educativo ha un’importanza fondamentale. La filosofia, in un’età come quella, nella quale prevale il pragmatismo, non viene svalutata ma viene vista con interesse proprio per l’attenzione che si dà alla funzione pedagogica della sapienza e della scienza. Ed educare le giovani generazioni fu appunto uno dei fini principali dell’attività pubblica dei “Sofisti”. Ora, però, il valore educativo degli insegnamenti che questi maestri proponevano era molto discusso in quei tempi, e anche per noi, oggi,  resta molto discutibile: sembra infatti che i Sofisti (a differenza di quanto farà poi Socrate) utilizzassero la loro abilità dialettica come strumento per la formazione degli uomini politici, trascurando la discussione sui fini della politica e sui valori morali che la politica implica, a cominciare dal servizio al bene comune della città.

Il termine “sofista” (in greco “sojisthV [sophistés]) è stato coniato probabilmente da Platone, e vuole indicare un tipo di intellettuale che si serve della ragione dialettica (ragionamenti e retorica) per cercare, non la sapienza (“sojia [sophia]”) in sé e per sé (come dovrebbe fare un autentico “amante della sapienza”), ma la sapienza in quanto possa rendere capaci di persuadere gli altri e di manovrare la folla: ossia, quella abilità retorica che tanto serve per sembrare sapienti e quindi per ottenere il consenso politico o vantaggi economici. Il pensiero autentico dei Sofisti non è facile da decifrare per noi, oggi, dato che ci è pervenuto già marcato da un’interpretazione polemica, quella di Platone, appunto, e poi di Aristotele, che però sono le principali fonti storiche dalle quali ricaviamo qualche conoscenza su chi fossero e su che cosa insegnassero i Sofisti. Platone, nel dialogo Il sofista, attribuisce a questi filosofi molte caratteristiche negative: essi sarebbero «cacciatori prezzolati di giovani ricchi», «mercanti di sapere altrui», «commercianti al minuto della saggezza», «abili rètori che alimentano le controversie per guadagnare di più», e così via; l’unica qualità positiva che Platone riconosce ai Sofisti è di esercitare lo spirito critico e con esso purificare gli animi di quanti si credono filosofi e che sono accecati dalla presunzione di avere già il possesso della sapienza: la tecnica dello “elegcoV ([élenchos] = confutazione)” è infatti l’arma dialettica della quale si servivano i Sofisti per umiliare i saccenti e mettere in crisi le loro infondate certezze, dimostrando che, rimando fermi ai loro princìpi,  non sapevano uscire dalla contraddizione insita nelle loro tesi. Aristotele, da parte sua, insiste ancora sul fatto che i Sofisti sono propagatori di «un sapere apparente, non reale» (cfr Confutazioni sofistiche, 165 a 22 ss., e Metafisica, III, 1004 b 25 ss.).

 


Quella dei Sofisti, più che filosofia è ideologia.


Spesso si afferma che l’uomo è al centro delle dottrine dei Sofisti, e che quindi a loro spetta il merito di aver messo in luce il problema antropologico al di sopra della natura cosmica, spostando l’interesse filosofico dalla natura all’uomo. Ma tali valutazioni non sono facilmente accettabili in sede critica, specialmente se si pensa alla loro scarsissima fondazione storiografica. Più che pensatori essi sono rètori: loro merito è di aver contribuito efficacemente alla diffusione della cultura, che però risulta superficiale, utilitaristica, tutt’altro che filosofica; si potrebbe dire, con uno specialista della materia,  che «essi insegnano a vivere alla giornata, senza educare i discepoli o un più vasto pubblico agli ideali nobili e ai veri valori della vita. I Sofisti si preoccupano di affinare l’arte della parola, senza badare al contenuto di verità che la parola dovrebbe avere;  esaltano l’individuo, ma trascurano l’uomo; sembrano maestri di personalismo, ma a ben vedere ignorano i valori genuini della persona. Con la loro abilità oratoria mirano a ottenere il consenso, anche se momentaneo, e gli interessi particolari (di singoli individui e di gruppi) prevalgono sull’interesse universale e sul bene comune, così come l’arte di presentare alla gente il “verosimile” prevale sulla ricerca del vero, sostanza della filosofia. Ciò nonostante, bisogna riconoscere che «la modernità dei molteplici problemi formulati e discussi dai Sofisti nell’àmbito del loro insegnamento è davvero sorprendente: l’elenco che segue dovrebbe parlare da solo. In primo luogo, gli aspetti filosofici della teoria della conoscenza e della percezione: fino a che punto le percezioni sensoriali siano da considerarsi infallibili ed incorreggibili, ed i problemi connessi. La natura della verità, e soprattutto la relazione tra ciò che appare e ciò che è reale, o vero. Il rapporto tra il linguaggio, il pensiero e la realtà. La sociologia della conoscenza, una materia da approfondire, in quanto gran parte di ciò che supponiamo di conoscere appare condizionato socialmente, anzi etnicamente: il che rese possibile per la prima volta un approccio autenticamente storico alla cultura umana soprattutto attraverso l’idea del cosiddetto antiprimitivismo, cioè il rifiuto della convinzione che nel lontano passato tutto fosse migliore, a favore del progresso e del concetto di un graduale sviluppo della storia degli esseri umani. Il problema se si possa mai giungere alla conoscenza degli dèi, e la possibilità che esistano soltanto nella nostra mente, ovvero che siano invenzioni dell’uomo intese a soddisfare bisogni sociali. I problemi teorici e pratici legati alla vita in società, soprattutto nelle democrazie, con l’annessa teoria secondo cui tutti gli uomini sono o dovrebbero essere uguali, almeno per qualche aspetto. Che cosa sia la giustizia. Quale debba essere l’atteggiamento dell’individuo di fronte a valori imposti dagli altri, specie in una società organizzata, dove si richiede obbedienza alle leggi e allo stato. Il problema delle pene. La natura ed il fine dell’educazione, ed il ruolo occupato nella società da chi insegna. Le rivoluzionarie conseguenze della teoria secondo cui la virtù può essere insegnata: che è soltanto un modo per esprimere in un linguaggio ormai fuori moda quello che intendiamo quando diciamo che uomini di una certa condizione sociale possono essere cambiati con l’educazione» [1].

L’incertezza dell’interpretazione si deve alla mancanza di documenti: dei Sofisti ci restano solo pochi “frammenti”, e i giudizi di Platone e di Aristotele. Vediamo adesso  quali sono gli scarni dati bio-bibliografici di due tra i più celebri di questi filosofi, ossia  Protagora di Abdera e Gorgia di Lentini, tralasciandone altri, come Ippia, Prodico e Trasimaco, che hanno tratti meno definiti. Successivamente, torneremo ad accennare ai Sofisti nell’esaminaremo il pensiero di Socrate e faremo qualche accenno alle scuole socratiche.




Protagora

Protagora di Abdera nacque verso il 480 av. Cr.; pare che dovesse vivere molto miseramente gli anni dell’adolescenza e della giovinezza, al servizio dei ricchi che lo impiegavano nel trasporto della legna. Si narra come il filosofo Democrito (cfr cap. I, 4) rimanesse sbalordito osservando la perfetta simmetria con cui Protagora ordinava la legna che trasportava; forse questo particolare è solo una leggenda, fatto sta che Democrito lo invitò a stare con lui per iniziarlo alla filosofia. Alla scuola di Democrito Protagora fece tanti progressi che ben presto la sua fama si estese da Atene, ove si era trasferito, a tutto il resto della Grecia. Dotato di una eccezionale eloquenza, attirava attorno a sé numerosi giovani, e lo stesso Pericle lo favorì, affidandogli l’incarico di “nomoqeta [nomothéta]”» cioè moderatore e riformatore delle leggi, l’onore massimo che poteva ricevere un cittadino. Tanta gloria gli attirò ­l’invidia di un gruppo di oligarchi (i Quattrocento), e successe con Protagora quello che poi sarebbe sucesso con Socrate (vedi più avanti, par. 3): fu accusato di “empietà”, le sue opere furono bruciate e lui fu condannato a morte. Per sfuggire alla pena capitale Protagora abbandonò la Grecia e si imbarcò alla volta della Sicilia;  ma non riuscì a mettersi in salvo, perché la nave naufragò ed egli perse la vita (411-410 av. Cr.). Diogene Laerzio, nelle Vite dei filosofi (IX, 51), afferma che l’accusa di empietà derivò da uno scritto che Protagora aveva pubblicato, nel quale si affermava che degli dèi non possiamo dire nulla: «né che esistano né che non esistano: e la ragione  è che l’argomento è molto oscuro, e per di più la nostra vita è molto breve».

Dai pochi frammenti che ci restano delle sue opere e delle numerose testimonianze di Platone (che ne fece il protagonista del dialogo intitolato appunto Protagora) e di Aristotele sembrerebbe che il pensiero di Protagora sia povero di contenuto filosofico; la sua opera principale, intitolata La verità (o anche Discorsi sovvertitori) rappresenta un’involuzione rispetto alla speculazione metafisica dei pensatori precedenti, compreso il suo maestro Democrito, il quale aveva elaborato una toeria sulla realtà, sia pure su basi materialistiche. Invece per Protagora la realtà della quale si può parlare consiste soltanto negli aspetti più immediati dell’esperienza sensibile, che come tali – se non collegati all’intuizione intellettuale – non consentono alcuna costruzione metafisica ma solo la descrizione di fatti contingenti da parte di un soggetto, l’uomo, che a sua volta non ha che un punto di vista particolare e mutevole: in questo senso l’uomo è «misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono, e di quelle che non sono per ciò che non sono». È quanto riferisce testualmente Platone nel Teeteto: «Protagora dice che di tutte le cose è misura l’uomo: delle cose che esistono, perché esistono, e delle cose che non esistono, perché non esistono. E intende dire – commenta Platone – che quali le singole cose appaiono a me, tali esse sono per me, e quali esse appaiono a te, tali sono per te; e uomini siamo tu e io… Ma non succede spesso che, quando soffia lo stesso vento, uno di noi sente freddo e un altro no, oppure uno sente appena un po’ di freddo e un altro molto? Dobbiamo allora dire che il vento in sé stesso è freddo e non-freddo, o dire con Protagora che il vento è freddo per chi sente freddo, e non-freddo per chi non sente freddo? Apparenza dunque e sensazione sarebbero la stessa cosa, se consideriamo gli oggetti caldi e altre cose di simile natura, perché nel modo con cui ciascuno sente una cosa, tale sembra che sia per ciascuno». Come si vede, Protagora cerca di formulare la teoria (che poi si chiamerà “relativismo”) per la quale non c’è nulla di assoluto in sé, non c’è verità dell’essere che sia norma del­l’agire, ma ogni rilevamento della realtà e ogni apprezzamento dei valori è relativo al soggetto: è dunque uno scetticismo sensistico, che esclude per principio la ricerca di una verità universale, valevole per tutti, per ogni tempo e in ogni luogo. La verità per Protagora varia da individuo a individuo: non solo, ma è fluttuante in uno stesso individuo, muta cioè col mutare delle impressioni dei sensi e delle rispettive certezze momentanee. Aristotele parla di questa dottrina mostrandone l’assurdità, ossia la contraddizione intrinseca, l’incompatibilità con le evidenze del “senso comune”: se le cose stessero come dice Pratagora, scrive Aristotele, allora tutti avrebberosempre ragione, nessuno penserebbe il falso, perché ognuno è certo in un dato momento di quello che gli sembra, di quello che gli appare (cfr Metafisica, 1062 b 14); e Aristotrel ha ragione, perché Protagora ignora la differenza tra “certezza” e “verità”: lo spirito critico serve proprio per questo, per verificare se la certezza soggettiva del momento offre tutte le garanzie per essere considerata legittima e per assicurare il possesso della verità e l’esclusione del falso. In tal modo la conoscenza  viene svuotata del suo significato razionale: conoscere significa soltanto “percepire”, “sentire”, e non vi può essere posto per la verità che si coglie con la facoltà intellettiva. Ne consegue una morale relativistica, poiché i sensi, essendo princìpi di realtà, devono essere anche le regole dell’azione; sicché la morale consisterà nell’agire secondo che sembrerà bene alle esigenze particolari del­l’individuo nei particolari momenti in cui si trova e agisce. Si tratta evidentemente non solo di una polemica nei confronti del pensiero dei precedenti filosofi, ma di una perdita netta dei valori filosofici scoperti da quelli. Ciò è dovuto al fine che Protagora si propone di raggiungere: non si tratta più dell’amore della sapienza, cioè della filosofia, ma della capacità di destreggiarsi nelle vicende umane e così vivere “bene”. Protagora al sapiente di cui parlava Pitagora sostituisce l’uomo di successo, l’oratore abile che sa presentare e difendere le sue opinioni, vere o false che siano; alla ricerca del bene comune della città sostituisce la ricerca dell’utilità particolare, intesa come solo valore da affermare e difendere, anche magari sublimandola con artifici retorici. Da qui si spiega anche la sua visione politico-sociale, tutta improntata al criterio egoistico per cui ogni individuo, come esigenza della sua inatura,  deve cercare di affermarsi sugli altri (analogamente a quanto insegnerà alla fine dell’Ottocento il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, che peraltro ben conosceva la filosofia dei primi pensatori Greci, con la sua “Wille zur Macht [ = volontà di potenza]”: vedi vol. III, tomo 1, cap. X). Il criterio egoistico, certamente,  spesso appare (ma in realtà sempre è) in contrasto con l’interesse della città e il bene comune dei cittadini; ma le leggi dello Stato, per Protagora, sarebbero soltanto convenzioni sociali emanate per la difesa dei deboli, quindi non corrisponderebbero affatto alla natura umana, che esige da parte di ciascuno la lotta per prevalere sugli altri, prima che gli altri prevalgano su di lui. Così riassume Platone nella Repubblica la dotttrina di Protagora: «Dicono che per natura il fare ingiustizia è un bene e il subirla è un male; ma è maggiore l’eccesso di male che di bene nel farla. Pertanto, dopo aver a vicenda subita e fatta l’ingiustizia, e saggiata l’una e l’altra cosa, quelli i quali non potevano evitare l’una e prendere l’altra, credettero fosse giovevole pattuire fra loro di non fare e subire ingiustizia; e di qui cominciarono a fissare leggi e convenzioni, e chiamarono “legalità” e “giustizia” ciò che è conforme alle disposizioni della legge». Da questo brano si può rilevare che Protagora esprime per la prima voilta nella storia della filosofia quel principio “convenzionalistico” intorno al­l’origine della società civile e delle leggi che poi sarà ripreso e sviluppato duemila anni dopo dal filosofo inglese Thomas Hobbes (vedi vol. II, cap. VIII) con la sua celebre teoria della naturale conflittualità permanente tra gli uomini (“Homo, homini lupus [ = Ogni uomo è come un lupo per gli altri uomini]”).


 Gorgia

Nato nella Magna Grecia, in Sicilia, nella città di  Leontini (oggi Lentini, presso Siracusa) verso il 483 av. Cr., Gorgia fu considerato il più grande dotto e più grande retore del tempo. Dopo aver soggiornato in varie città della Magna Grecia, ovunque applaudito e venerato, risedette a lungo ad Atene, maestro ricercato e degli aristocratici e dei politici; negli ultimi anni si stabilì a Larissa, in Tessaglia, ove morì centenario verso il 380 av. Cr. Platone ne fa il protagonista di una disputa con Socrate nel dialogo intitolato appunto Gorgia;  in un altro dialogo, Platone ne parla non come di un filosofo ma come di un rètore abilissimo e scettico: «Era capace, con l’abilità dei suoi discorsi, di fare sembrare grandi le cose piccole e piccole le cose grandi» (Fedro, 267 a). In effetti, di lui possediamo alcuni frammenti di diverse opere il cui contenuto dovette essere più retorico che filosofico (pare anzi che fossero orazioni funebri da imparare a memoria come esercitazione retorica): si tratta dell’Apologia di Palamede e dell’Encomio di Elena. Lo scetticismo gorgiano si esprime, retoricamente, con un gioco di parole: dice che «l’efficacia che ha il linguaggio (logoV [logos]) quando agisce sull’ordine interiore dell’animo umano è paragonabile all’efficacia che ha la medicina ([phàrmakon]) quando agisce sull’ordine esteriore del corpo» (frammenti 11 e 14); il gioco di parole sta nel fatto che “farmakon” in greco vuol dire tanto “medicina” quanto “veleno”:  il Sofista si vanta dunque di poter fare tutto con l’arte della retorica: aiutare o danneggiare, convincere del vero o del falso.

Sappiamo però anche di un’opera di Gorgia intitolata La natura o il non essere, con la quale il retore si dovette proporre di condurre alle estreme conseguenze le premesse di Protagora, conseguenze che dovettero costituire anche le sue conclusioni e che consistono in un totale scetticismo sia metafisico che antropologico, come attesta Aristotele che ne parla nelle Confutazioni sofistiche (cfr 34, 183 b 36 ss.). In questa opera Gorgia si riallaccia alla speculazione della scuola eleatica (cfr cap. I, 3), e in particolare alla contrapposizione che Prmenide fa tra essere e non-essere. Ma la metafisica di Gorgia, invece di tentate un’interpretazone dell’essere dell’esperienza – come appunto aveva fatto Parmenide – è la rinuncia a ogni tentativo di conoscenza dell’essere. Questo nichilismo metafisico (che è il risvolto dell’agnosticimso più radicale) è formulato da Gorgia per mezzo di un tipico ragonamento sofistico: «(a) Non esiste alcunché; (b) se anche qualcosa esistesse, sarebbe inconoscibile; (c) se poi invece si potesse conoscere, sarebbe comunque incomunicabile». In tal modo le teorie sensistiche di Protagora, con lo sviluppo di Gorgia, riducono l’uomo all’impossibilità di filosofare, cioè di conoscere: per Protagora l’uomo costituisce la misura della realtà; per Gorgia la realtà è il nulla (negazione della metafisica), quindi l’uomo è misura del nulla. Ma può anche darsi che la realtà in qualche modo esista: se anche così fosse, essa sarebbe comunque qualcosa al di sopra e al di fuori delle possibilità conoscitive dell’uomo, possibilità che per Gorgia, come per Protagora, sono le sensazioni; infatti se la realtà fosse quella percepita dai sensi, sarebbero veri i sogni e tutto ciò che presenta la fantasia o l’immaginazione. Sicché Gorgia, non superando l’àmbito del sensibile instaurato da Protagora, doveva fatalmente ritrovarsi in un vicolo cieco ove s’infrange l’apparente esaltazione dell’uomo.

Quanto alla parola, Gorgia afferma che essa non può comunicare la realtà: le parole sono segni  convenzionali che nulla possono avere a che fare con l’essere; siamo alla prima manifestazione di quel nominalismo  che si manifesterà nel pensiero del Medioevo con Roscellino a proposito del problema teologico degli “universali” e che sarà successivamente ripreso dal pensiero moderno sotto forma di “empirismo”.

Dai princìpi di Gorgia si deduce facilmente come il pensiero filosofico raggiunga, con i Sofisti, il fondo della crisi; da un lato, per Gorgia, la parola è vuota di senso, perché incapace di comunicarlo, dall’altra la parola è tutto, poiché è l’unica arma per conquistare gli animi, trascinare le folle e trionfare sugli avversari: «Chi ascolta la parola – scrive Gorgia– è preso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa le lagrime, da un desiderio pieno di tristezza, come se l’anima per effetto delle parole patisse una sua propria passione al sentire fortuna e sfortuna di persone estranee». Quindi «la parola è la grande signora che, con sostanza mite e molto tenue, compie cose divinissime: riesce a calmare la paura, elimina il dolore, suscita la gioia, ispira la pietà» (Elogio di Elena).

 


2. Socrate e la scoperta della vera filosofia


In mezzo a tanto scetticismo, tra le rovine prodotte dalla Sofistica si erge però la grande figura di Socrate, restauratore dei valori del pensiero (la verità, il bene, la giustizia), in funzione anche degli autentici valori genuinamente sociali. Vissuto nell’epoca della Sofistica, Socrate si colloca in stretto rapporto dialettico con i temi trattati dai Sofisti. Come scriveva molto tempo fa il filosofo personalista Luigi Stefanini, «lo scetticismo dei Sofisti, con la sua insistenza negativa, promuove l’approfondimento di un problema che i precedenti filosofi o non avevano affrontato o avevano risolto superficialmente: quello del valore della conoscenza sensibile e razionale. Parmenide ed Eraclito, per diverse ragioni, avevano dichiarato illusorie le attestazioni dei sensi, Democrito aveva sostenuto la relatività della conoscenza sensibile. Ora i Sofisti estendono la relatività alla stessa conoscenza razionale. Il problema s’impone, adunque, in tutta la sua gravità: in qual modo riabilitare i nostri mezzi conoscitivi? Quale valore ha l’uomo che i Sofisti dichiarano arbitro della verità e del bene? […] La filosofia greca è richiamata dall’esterno all’interno. Lo studio dell’oggetto, dopo una serie di ricerche e di tentativi, rimanda allo studio del soggetto pensante; e la conoscenza dell’io si pone come pregiudiziale alla conoscenza del mondo» [2]. In effetti, se lo spirito critico diffuso nella società greca dai Sofisti viene usato anche per giudicare l’attendibilità delle loro dottrine, ci si deve domandare: è vero che l’unica spiegazione della vita  sociale  è la forza dell’istinto di sopraffazione dell’uomo, che i Sofisti interpretano come la vera natura umana e al quale attribuiscono un primato sulle leggi dello Stato? È vero che non c’è legge civile che non sia mera convenzione, stipulata non per esigenza di giustizia ma per mero bisogno di difesa da parte di chi teme l’iniziativa altrui? Per rispondere a queste domande bisogna mettere da parte le ricerche sulla realtà esteriore, e approfondire invece la conoscenza del mondo interiore dell’uomo. Con Socrate abbiamo così una ripresa del problema metafisico, ma ormai non più su base naturalistica, come nei secoli precedenti, bensì su base antropologica, e la metafisica socratica, con gli sviluppi che avrà nella speculazione di Platone e di Aristotele,  può ben dirsi il germe di una metafisica integrale (del mondo, dell’uomo e di Dio) che è legittimo vanto dei Greci e indispensabile fondamento di tutto l’edificio speculativo dei secoli successivi, si può dire fino ai nostri giorni.

 


La vita


Socrate è, nella storia della filosofia greca, il primo pensatore ateniese; nacque infatti in un popolare e laborioso sobborgo di Atene, dove, tra l’altro, c’ea un mercato molto frequentato. Il padre, Sofronisco, sembra sia stato uno scultore, e la madre, Fenarete, un’ostetrica. Sappiamo da molti documenti storici che l’anno della sua morte fu il 399 av. Cr., che era il primo anno della XCV Olimpiade, e sappiamo anche che in quell’anno Socrate contava settant’anni, e quindi la sua nascita deve essere avvenuta  tra il 470 e il 469 av. Cr. Nella sua adolescenza giungevano in Atene, prima che in Atene si affermasse la Sofistica, gli echi della filosofia insegnata dai “fusikoi ([physikòi] = studiosi della natura)” nelle scuole che erano fiorite nella Magna Grecia; uno di questi filosofi, Archelao, che era stato discepolo di Anassagora (cfr cap. I, 5), si stabilì ad Atene e aprì una scuola, dove il giovanissimo Socrate fu iniziato alla riflessione filosofica. Dalle testimonianze di Senofonte e di Platone – che lo conobbero e vissero a lungo con lui, l’uno per ragioni militari, l’altro perché fu il più grande dei discepoli – sappiamo che Socrate partecipò alla vita militare come “oplita” per circa un decennio (432-422) e che si comportò da eroe nella battaglia di Potidea (anno 432), ove salvò la vita dello stesso Alcibiade, rimasto ferito; anche nelle battaglie di Delio (anno 424) e di Anfipoli (anno 422) diede prova di valore militare. Finita la guerra, tornò ad Atene e non si mosse più dalla sua città; lì trascorse la vita impegnato a educare i suoi concittadini, particolarmente i giovani, convinto di essere stato investito da Dio di una missione filosofica che consisteva nell’elevare, mediante la sapienza, la vita della città dal punto di vista morale, mettendo in guardia contro la falsa sapienza dei Sofisti e contro il fascino perverso della corruzione dilagante. In età piuttosto avanzata sposò una certa Santippe, dalla quale ebbe tre figli, che alla morte del loro padre erano ancora adolescenti o di tenera età; pare che fosse molto affezionato ai suoi famigliari, anche se la moglie tentò a più riprese di distoglierlo dalle sue pericolose iniziative nell’agorà..

Dai dati storiografici che gli autori antichi ci forniscono possiamo ricavare la certezza che Socrate fu un filosofo che influì profondamente su una cerchia ampia di discepoli, che lo ammiravano per il suo esempio di vita virtuosa e praticavano i suoi insegnamenti. Tra tali discepoli possiamo annoverare giovani aristocratici come Platone e Alcibiade, i quali apprezzavano la critica  che il maestro faceva della democrazia ateniese, così come veniva intesa e praticata; appassionati sostenitori dei valori popolari come Antistene, che apprezzava soprattutto l’esempio di sobrietà e di disprezzo delle ricchezze offerto dal maestro con grande dignità e coerenza; focosi anarchici rivoluzionari come Aristippo, che sognavano una città dove finalmente tutti vivessero senza soggezione nei confronti del potere politico, con la libertà di spirito di cui era campione Socrate; insomma, tanti diversi tipi intellettuali e di uomini d’azione, accomunati tutti dalla certezza che il maestro insegnasse davvero uno stile di vita che confacente alla dignità dell’uomo nella polis. Non mancavano gli avversari, soprattutto tra coloro che temevano che il suo esempio e i suoi insegnamenti costituissero un pericolo per le istituzione politiche del momento, e in concreto per chi deteneva allora il potere. Si trattava di un pericolo avvertito in modo confuso e contraddittorio, tanto che alla fine uno dei crimini che vennero rimproverati a Socrate fu la sua presunta “irreligiosità”. In effetti, Socrate, nella sua critica sistematica di tutte le forme vuote della tradizione, non risparmiava nemmno il politeismo greco; egli voleva così portare i suoi concittadini a riflettere sulla falsità radicale di una religione non più sincera ma esclusivamente funzionale agli interessi delle istituzioni politiche. Se Socrate mostrava talvolta indifferenza verso gli dèi dell’Olimpo, parlava però con commosso entusiasmo di un solo Dio vivo e vero, un Dio che egli sentiva nell’intimo della coscienza e che gli faceva sperare una vita beata nell’aldilà, per la quale valeva la pena di perdere la vita presente qualora lo richiedessero la coerenza nella virtù e la testimonianza da dare alla verità. Senofonte scrive in proposito: «Del fatto che egli non venerasse gli dèi di Atene, quale aprova portavano i suoi accusatori? Ad Atene tutti sapevano che egli offriva spesso sacrifici nella sua casa, oltre che offrirli sugli altari pubblici. E tutti sapevano ugualmente che egli praticava la divinazione. Tutti avevano sentito Socrate quando diceva che Dio gli parlava per mezo dei sogni: e forse proprio questo fato ha dato occasione per accusarlo di introdurre ad Atene nuovi culti» (Detti e fatti memorabili di Socrate, I, 1). Questo spirito profondamente religioso ha sempre impressionato tutti coloro che hanno sentito parlare di Socrate; san Giustino martire, il primo filosofo cristiano (vedi cap. VI, 4), scrisse: «Egli allontanò dalla sua città i demoni malvagi e le divinità che usavano commettere quei delitti che i poeti (Omero e tanti altri) avevano descritto; egli voleva distogliere gli uomini da tale culto per cercare invece di conoscere, con l’aiuto della ragione, il Dio che ignoravano» (Seconda apologia, 3, 1); e persino Voltaire (il filosofo anticristiano del Settecento di cui parleremo nel vol. II) fa capire di essere colpito dalla vicenda paradossale di Socrate quando lo definisce «quell’ateo che osa dire c’è un solo Dio» [3]

Di carattere mite, ma inflessibile quando si trattava di difendere e affermare la verità e la giustizia, Socrate fu prima invidiato e poi perseguitato dai Sofisti e dai loro complici nelle trame affaristiche e  politiche; questi lo accusarono di “empietà” (ossia di mancare di rispetto per gli dèi della città e per le tradizioni religiose locali) e di incitamento della gioventù alla ribellione. La denuncia fu firmata da tre ateniesi (Meleto, Anito e Licone) e presentata al consiglio dei cinquecento giudici di Atene, detti “eliasti”; il verdetto fu pronunciato dopo una votazione segreta,  e al primo scrutinio Socrate fu dichiarato colpevole da una maggioranza di trecentoquaranta membri del consiglio dei giudici. Qualche speranza di salvezza restava, poiché la legge di Atene riconosceva al reo il diritto di difendersi e di chiedere un provvedimento di clemenza (condono o riduzione della pena); ma  Socrate si difese in modo assolutamente controproducente: pretese di convincere i giudici di avere avuto proprio dagli dèi un’investitura filosofica e religiosa per una missione di pubblica utilità, la missione di educare gli ateniesi (compresi gli stessi giudici!) all’amore per la verità, alla conoscenza di sé stessi, all’amore sincero per gli altri, al culto autentico degli dèi, al rispetto della patria e delle sue leggi; in conclusione, egli aveva diritto non solo all’assoluzione dalle false accuse degli invidiosi, ma al mantenimento da parte dello Stato. Tale atteggiamento indispose i giudici; perciò il responso della seconda votazione aggiunse altri venti voti sfavorevoli: con trecentossessanta voti contro centoquarata fu dichiarato reo di «corrompere i giovani e di non credere negli dèi in cui crede la cittadinanza ma in altre divinità nuove, e di sciupare il tempo nell’indagare cose che dovrebbero trovarsi sotto terra e nei cieli». Fu quindi condannato alla pena capitale. Una casuale coincidenza impedì l’immediata esecuzione:  in Atene infatti, si attendeva la “nave sacra” di ritorno da Delo, per dove era partita con le offerte-dono (come propiziazione e ringraziamento per la mitica vittoria di Teseo sul Minotauro), il giorno prima della condanna di Socrate, e le leggi ateniesi vietavano le esecuzioni capitali finché la “nave” non rientrasse in patria. Sicché vi fu circa un mese di aspettativa, che Socrate trascorse in prigione, circondato dai fedeli discepoli coi quali continuò a conversare intorno al vero, al bene e al giusto; né valsero le calde esortazioni dei più affezionati che lo supplicavano di fuggire dalla prigione per sottrarsi alla pena capitale alla quale era stato ingiustamente condannato; ma egli attese serenamente il giorno estremo in cui «bevve la cicuta tutta d’un fiato – racconta Platone nel Fedone – senza dar segno di disgusto, anzi piacevolmente, e vuotò la tazza fino in fondo. E i più di noi fino a quel momento erano riusciti alla meglio a trattenersi dal piangere; ma quando lo vedemmo bere, e che aveva bevuto, allora non più; e anche a me, contro ogni mio sforzo, le lacrime caddero giù a fiotti; e mi coprii il capo e piansi me stesso: ché certo non lui io piangevo, ma la sventura mia, poiché di tale amico restavo abbandonato». Da quel giorno Socrate costituì l’esempio più concreto del filosofo: egli aveva insegnato la verità e aveva suggellato col sacrificio di sé la sua dottrina.

 


Fonti storiche per ricostruire il  pensiero socratico


La dottrina socratica deve essere dedotta dalla descrizione biografica che ci hanno lasciato Senofonte ed Alcibiade, dall’esposizione dottrinale che ne fa Platone nei suoi dialoghi e dai cenni critici che troviamo nelle opere di Aristotele. Socrate infatti non lasciò alcunché di scritto (salvo forse un inno a Esculapio, scritto durante la prigionia); probabilmente era convinto che soltanto dialogando a viva voce gli uomini possono comunicarsi vicendevolmente quella verità che ciascuno custodisce nella sua interiorità spirituale; gli scritti sono muti testimoni di un messaggio, ma non bastano, anzi sono occasione di esteriore superficialità e quindi di falsa sapienza. Questa era la convinzione anche di Platone, che scrise moltissimo ma affidò alle “dottrine non scritte” il meglio della sua sapienza; e che pensasse così lo testimoniano queste parole che egli mette sulla  bocca di Tamos, re d’Egitto, il quale dice a Theut (il dio degli Egizi, considerato l’inventore della scrittura: «Tu offri soltanto un’apparenza di scienza e non la vera scienza: infatti, quando gli uomini, per causa tua, avranno letto tante dottrine ma senza alcun insegnamento orale, crederanno di possedere molte conoscenze e invece rimarranno fondamentalmente ignoranti; costoro saranno perciò insopportabili agli altri, in quanto avranno presunzione di sapienza, ma non la vera sapienza».

 


Platone: Socrate è il maestro del dialogo, con lo scopo di insegnare la virtù.


L’interpretazione che Platone fa del maestro è netta: Socrate è l’esempio vivente di una filosofia basata sul dialogo, ossia sulla ricerca comunitaria e sulla dialettica; e questa ricerca – assieme al metodo con cui viene condotta – ha un carattere eminentemente etico. Difatti, i primi dialoghi platonici hanno come protagonista Socrate, e il maestro viene presentato come un filosofo che insegna soprattutto a conoscere e a praticare la virtù.

 


Aristotele: Socrate è lo scopritore dell’universale e dell’induzione.


Oltre a quello che di Socrate ci ha trasmesso Platone, abbiamo anche una importantissima testimonianza/ interpretazione di Aristotele (che, come vedremo nel cap. IV, è il primo storico della filosofia, ossia il primo filosofo che abbia studiato e criticato i filosofi a lui precedenti). Aristotele scrive che Socrate si distinse dai filosofi della sua epoca perché non si occupò della natura in generale, ma specificamente della condotta umana in rapporto alla verità e alla giustizia (cfr Metafisica, A, 987 b 1-2). Inoltre – scrive ancora Aristotele – Socrate si caratterizzò per aver introdotto nella filosofia l’argomentazione finalizzata alla scoperta della verità (a differenza di quello che facevano i Sofisti) e anche la ricerca dei concetti universali (facendo capire che cos’è l’essere umano, che cos’è la virtù e così via), che sono la base della conoscenza scientifica (cfr. Metafisica, M, 1078 b 27 – 29). Platone e Aristotele concordano quindi nel presentare Socrate come un filosofo essenzialmente etico e politico: nel senso che il suo modo di fare filosofia e di insegnarla era un modo di vivere secondo la verità e la virtù nella polis, in continuo dialogo con i suoi concittadini; contrapponendosi ai Sofisti, Socrate mirava a «distogliere gli Ateniesi dalla rincorsa alla potenza, alla ricchezza, all’accumulo di “beni” esterni, ed esortarli a prendersi cura della loro anima» .

Il pensiero di Socrate, dunque, è stato ricostruito sulla base di queste fonti storiche, con tutta l’incertezza che l’operazione comporta. Come ha scritto uno specialista, sorprende «che gli storici della filosofia, concordi nel sostenere che il pensiero di Socrate segna una svolta decisiva nello svolgimento del pensiero greco, anzi di quello occidentale in genere, siano poi in disaccordo fra loro quando devono dire in che cosa esso consiste. È poi notevole che il fatto che mentre abitualmente le difficoltà in casi simili derivano dalla mancanza o dalla povertà delle testimonianze, qui avviene l’opposto, sicché gli imbarazzi nascono  dalla sovrabbondanza delle notizie» [4]. E una filosofa che ha molto riflettuto sul socratismo commenta: «Ogni ricostruzione storica di Socrate giunge ad essere un’interpretazione, e soltanto un’interpretazione: come se quel tratto caratteristico del personaggio, noto con il nome di ironia, facesse da schermo alla figura obbligando ad affidarne il ritratto alle personali  capacità interpretative del ricercante. I numerosi studi critici e comparativi delle fonti, che si sono assunti il compito preciso di delineare il Socrate “storico”, e che intorno a lui hanno illuminato molteplici questioni particolari, visti nel loro insieme ci fanno edotti della impossibilità di acedere, infine, proprio a quel fine che si erano proposto, poiché non potevano eludere la difficoltà iniziale che li fa quello che sono: non ricerche su una figura “storica”, ma su una sua rielaborazione, ossia su di un “personaggio” dalla fisionomia variabile e dalle caratteristiche polivalenti» [5].

Di Socrate, in circa quaranta citazioni che si trovano nelle sue opere, Aristotele afferma sostanzialmente tre cose: che egli è stato lo scopritore del metodo induttivo, grazie al quale avvia la ricerca dell’universale, soprattutto nel campo dell’etica; che egli è stato l’assertore dell’intellettualismo etico; che si è servito dell’ironia come mezzo per rendere gli interlocutori consapevoli dei loro errori.

 


Il metodo filosofico


È evidente che Socrate, dal punto di vista degli obiettivi e del metodo del suo impegno filosofico  appartiene in pieno alla sua epoca: egli fa filosofia per educare i suoi concittadini e contribuire così al bene della patria, e il suo metodo consiste nel dialogo, in vista della persuasione, proprio come è nella prassi dei rètori. Non desta meraviglia, dunque, che molti lo includessero nel gruppo dei Sofisti, senza avvertire la profonda differenza che lo separava da questi nei contenuti e nello spirito stesso del suo insegnamento dialettico. Ad esempio, il commediografo Aristofane, nella commedia intitolata Le nuvole (scritta nel 423 av. Cr.), vengono dileggiati come confusionari e corruttori indistintamente filosofi sofisti come Gorgia e Protagora, e anche Socrate.

Dall’indagine sulla natura fisica Socrate passa all’indagine sulla natura dell’uomo. Per quanto riguarda le analogie con quanto insegnavano i Sofisti, anche Socrate spostava l’attenzione dell’indagine filosofica dai problemi cosmologici ai problemi antropologici. Senofonte attesta che Socrate «non indagava sulla natura dell’universo, come invece avevano fatto quasi tutti i filosofi del suo tempo, i quali volevano sapere come si sia formato quello che chiamavano “mondo ordinato [kosmoV]” e quali siano le cause necessarie dei vari fenomeni astronomici; rispetto a queste indagini, Socrate diceva di ritenere folli quelli che si occupavano di tali cose» (Detti e fatti memorabili di Socrate, I, 1). Ma l’indagine socratica sulla natura dell’uomo e sulle sue capacità conoscitive non sfociava nello scetticismo teoretico e nel relativismo morale, perché Socrate possedeva fermamente, viveva coerentemente  e insegnava esplicitamente alcune certezze fondamentali che la conoscenza umana è capace di raggiungere, servendosi della facoltà razionale e in particolare dell’induzione, che a sua volta si  basa sui dati empirici ma implica anche l’intuizione delle essenze universali.

La critica socratica va intesa come metodo pedagogico, e il dubbio  come “problema” in funzione della ricerca della verità. Dalle testimonianze di Senofonte, di Platone e di Aristotele possiamo dedurre che Socrate considerava la scienza come ordine razionale: sia nel senso di un ordinato procedere della ragione nella conoscenza di sé stessa e del mondo circostante, sia come ordinato procedere nell’attuare le esigenze razionali della rettitudine umana, nella condotta virtuosa. Per raggiungere tale ordine razionale Socrate usa un suo caratteristico metodo, che prende la mosse della critica, ossia della problematizzazione della certezze abituali della gente o “luoghi comuni”, che spesso nascondono ignoranza effettiva e presunzione di sapere quelle che non si sa (né talvolta si può mai sapere). Può sembrare, a prima vista che il metodo socratico precorra quello di René Descartes, il grande filosofo francese del Seicento che elaborò un metodo basato sul dubbio come primo passo della filosofia. In realtà, Socrate non mette in dubbio che la verità si possa prima o poi raggiungere, anzi egli insegna proprio il contrario, ossia che ognuno ha già il possesso delle verità fondamentali e che basta scoprirle nel proprio patrimonio interiore, nella propria coscienza; per questo motivo il suo motto era “conosci te stesso”. Il dubbio Socratico non è – come sarà quello cartesiano – un dubbio sistematico e universale, ma un esame senza pregiudizi delle nostre conoscenze: per accettare ciò che è davvero evidente e provato, il bersaglio polemico di Socrate erano le fallacie dei Sofisti e le teorie arbitrarie dei filosofi naturalisti a lui anteriori: non le certezze incontrovertibile del senso comune. Anzi, si può dire che le l’arte socratica di “mettere alla luce” la verità comune a tutti, aiutando l’interlocutore a trovarla dentro sé stesso con il dialogo e la riflessione critica, è in fondo l’arte di ritrovare – al di sotto delle mille opinioni incerte che ognuno si forma, e anche in contrasto con le false opinione della massa- il fondamento solido delle certezze  inconfutabili che costituiscono il senso comune, ma una sua ripresa consapevole e scientificamente inoppugnabile: «Questo dubbio apparentemente negativo, perché finiva nel mostrare a’ Sofisti ch’essi non sapevano nulla, era in sostanza un’affermazione delle verità naturali, o superiore a qualsiasi sofisma. E così diciamo del dubbio contro le teologie e cosmologie materiali degl’Ionj. Diceva Socrate: costoro credono di sapere e non sanno nulla; perché parlano di dio e dell’universo, non conoscendo sé stessi; […] spogliamoci dunque di tutte le opinioni fittizie e presuntuose, e principiamo dal conoscere noi stessi, cioè dall’ammettere per vero tutto quello solamente che la natura della ragione o ci mostra da sé o ch’è a lei consentaneo. Ecco il dubbio socratico, non fondato nel nulla, ma in un’amorosa e ferma persuasione della verità e del conoscimento naturale»[6]. Augusto Conti, nella pagina che abbiamo appena citato, usa le espressioni “verità naturali” e “conoscimento naturale”: si vuole riferire, evidentemente, al senso comune nell’accezione gnoseologica da noi adottata, e ciò è confermato da quest’altro passo, sempre relativo al metodo di ricerca insegnato da Socrate: «In detta ricerca Socrate procedeva forse con la ragione solinga, senz’aiuto di tradizioni sacre ed umane, e disprezzando l’autorità del senso comune? Ciò non era possibile; perché movendo dal conosci te stesso, il nostro me, presente nella coscienza, si dimostra socievole e religioso; per la ricerca del vero dee soccorrere la fede in Dio e le massime del senso comune. Onde rileviamo che l’esame di Socrate si volgeva intorno alle ragioni del conoscimento, ma egli non chiamava in dubbio la certezza naturale di quello che conosciamo  ad evidenza. Di fatto, […] aveva gran fede nelle tradizioni universali  più antiche come più vicine alle origini, e nel discorso partiva sempre dalle verità comuni»[7]. In effetti, la testimonianza di Senofonte in proposito è esplicita: «Socrate assumeva come punto di partenza quelle certezze sulle quali c’è il massimo consenso di tutti, perché era convinto che solo così il ragionamento può arrivare a conclusioni certe» (Detti e fatti memorabili di Socrate, IV, 6).



[1] George B. Kerferd, I Sofisti, trad. it., Il Mulino, Bologna 1988, p. 223.


[2] Luigi Stefanini, Sommario di storia della filosofia, Ed. Sansoni, Firenze 1928, p. 123.


[3] Voltaire, Dictionnaire portatif de Philosophie


[4] Adolfo Levi, Sul pensiero di Socrate, in Studi di filosofia greca, a cura di Vittorio Enzo Alfieri e Michele Untersteiner, Ed. Laterza, Bari 1950, p. 217.


[5] Maria Adelaide Raschini, Interpretazioni socratiche, II ed., Ed. Marsilio, Venezia 2000, pp. 13-14.


[6] Augusto Conti, Storia della filosofia, II ed., vol. I, Barbèra Editore, firenze 1876, p. 311.


[7] Augusto Conti, op.ed. cit., pp. 311-312.