Compendio di Teologia Ascetica e Mistica (838-856)

Di Adolfo Tanquerey. Parte seconda. Le Tre Vie. LIBRO I. La purificazione dell’anima o la via purgativa. CAPITOLO IV. Lotta contro i peccati capitali. IV. I rimedii dell’orgoglio. § II. L’invidia. § III. L’ira. I. Natura dell’ira.

IV. I rimedii dell’orgoglio.

838. Abbiamo già detto (n. 207)
che il grande rimedio dell’orgoglio sta nel riconoscere che Dio è l’autore di
ogni bene, onde a lui solo spetta ogni onore e ogni gloria. Da noi non
siamo che nulla e peccato e non meritiamo quindi che oblìo
e disprezzo (n. 208)

839.Noi siamo un nulla.
Di questo devono gl’incipienti ben convincersi nella meditazione, lentamente
ruminando al lume divino i seguenti pensieri: io sono un nulla, io non posso
nulla, io non valgo nulla.

A) Io sono un nulla: piacque, è vero, alla divina bontà di
scegliermi tra miliardi di esseri possibili per darmi l’esistenza, la vita,
un’anima spirituale ed immortale, e io ne lo devo quotidianamente benedire. Ma:
aio esco dal nulla e per mio peso tendo al nulla,
ove infallantemente ricadrei se il Creatore con la incessante sua azione non mi
conservasse: il mio essere dunque non appartiene a me ma è intieramente di Dio,
e a lui ne devo far omaggio.

b) Quest’essere che Dio mi diede è una vivente realtà, un immenso
beneficio di cui non potrei ringraziarlo mai troppo; ma, per quanto ammirabile,
quest’essere, paragonato con l’Essere divino, è come un nulla, “Tanquam
nihilum ante te”
 839-1, tanto è imperfetto: 1) è un
essere contingente, che potrebbe sparire senza che nulla venisse a
mancare alla perfezione del mondo; 2) è un essere mutuato, che non
mi fu dato che sotto l’espressa riserva del supremo dominio di Dio; 3) è un
essere fragile, che non può sussistere da sè, bisognoso ad ogni istante
d’essere sorretto da colui che lo creò. È dunque un essere essenzialmente
dipendente da Dio, la cui unica ragione di esistere è di rendere gloria
al suo autore. Chi dimentichi questa dipendenza, chi operi come se le sue buone
qualità fossero intieramente sue e se ne vanti, commette un inconcepibile
errore, una follia e un’ingiustizia.

840. Quanto diciamo dell’uomo
nell’ordine della natura è anche più vero nell’ordine della grazia:
questa partecipazione della vita divina, che costituisce la mia nobiltà e la mia
grandezza, è dono essenzialmente gratuito che ricevetti da Dio e da Gesù Cristo,
che non posso conservare a lungo senza la divina grazia e che non può crescere
in me senza il soprannaturale suo concorso (n. 126-128),
onde è il caso di ripetere: “gratias Deo super inenarrabili dono
ejus”
 840-1. Quale ingratitudine e quale ingiustizia
l’attribuire a sè una minima particella di questo dono essenzialmente divino?
“Quod autem habes quod non accepisti? Si autem accepisti, quid gloriaris
quasi non acceperis?”
 840-2.

841. B) Io da me non posso
nulla:
è vero che ricevetti da Dio preziose facoltà che mi fanno conoscere e
amare la verità e la bontà; che queste facoltà poi perfezionate dalle virtù
soprannaturali e dai doni dello Spirito Santo; che non potrò mai ammirare
abbastanza questi doni di natura e di grazia che si integrano e si armonizzano
tra loro così bene. Ma da me, di mia volontà, io non posso nulla
nè per metterle in moto nè per perfezionarle: nulla nell’ordine naturale
senza il concorso di Dio; nulla nell’ordine soprannaturale senza la
grazia attuale, neppure formare un buon pensiero salutare, un buon desiderio
soprannaturale. Ciò sapendo, potrei inorgoglirmi di queste naturali e
soprannaturali facoltà, come se fossero intieramente mie? Anche questa sarebbe
ingratitudine, follia, ingiustizia.

842. C) Io non valgo
nulla:
se considero ciò che Dio ha posto in me e ciò che vi opera con la sua
grazia, io sono certamente un essere di gran pregio e di grande valore:
“empti enim estis pretio magno 842-1tanti vales quanti Deus: valgo
quello che sono costato e sono costato il sangue di un Dio! Ma l’onore della mia
redenzione e della mia santificazione spetta a me o a Dio? La risposta non
potrebbe essere dubbia. — Ma insomma, dice l’amor proprio vinto, io ho pur
qualche cosa che è mia e mi dà valore, è il libero mio consenso al concorso e
alla grazia di Dio. — Certo qualche parte ve l’abbiamo ma non la
principale:
questo libero consenso non è che l’esercizio delle facoltà
dateci gratuitamente da Dio, e nel momento stesso in cui lo diamo, Dio l’opera
in noi come causa principale: “operatur in vobis et velle et
perficere”
 842-2. E poi per una volta che consentiamo a
seguir l’impulso della grazia, quante altre volte le abbiamo resistito! quante
volte vi cooperiamo solo imperfettamente! Non c’è veramente di che vantarci ma
piuttosto di che umiliarci.

Quando un gran maestro dipinge un capolavoro, a lui viene attribuito e non
agli artisti di terzo o di quarto ordine che ne furono i collaboratori. A più
forte ragione dobbiamo noi attribuire i nostri meriti a Dio che ne è causa prima
e principale, tanto che, come canta la Chiesa con S. Agostino, Dio corona i
doni suoi coronando i meriti nostri “coronando merita coronas dona
tua”
 842-3.

843.Io sono
un peccatore,
e come tale, merito disprezzo, tutti i disprezzi che
piacerà a Dio di addossarmi. A convincercene, basti richiamare quanto dicemmo
del peccato mortale e del veniale.

A) Se ebbi la disgrazia di commettere un solo peccato mortale,
merito eterne umiliazioni, perchè ho meritato l’inferno. Ho, è vero, la dolce
fiducia che Dio m’abbia perdonato; ma non resta con ciò meno vero che ho
commesso un delitto di lesa Maestà divina, una specie di deicidio, una sorta di
suicidio spirituale, n. 719,
e che, per espiar l’offesa alla divina Maestà, debbo essere pronto ad accettare,
a desiderare anzi tutto le umiliazioni possibili, le maldicenze, le calunnie, le
ingiurie, gli insulti; perchè tutto ciò è assai al di sotto di quanto merita
colui che offese anche una volta sola l’infinita Maestà di Dio. Che se ho offeso
Dio moltissime volte, quale non dev’essere la mia rassegnazione, anzi la gioia,
quando mi si presenti l’occasione d’espiare i peccati con obbrobri di cosi breve
durata!

844. B) Abbiamo tutti
commesso dei peccati veniali e veniali deliberati, volontariamente
preferendo la volontà e il piacer nostro alla volontà e alla gloria di Dio. Or
questo, come abbiamo detto al n. 715,
è offesa alla divina maestà, offesa che merita umiliazioni così profonde da non
poter mai da noi stessi, fosse pure con una vita passata tutta nella pratica
dell’umiltà, restituire a Dio tutta la gloria di cui l’abbiamo ingiustamente
spogliato. Se pare esagerato questo linguaggio, si pensi alle lacrime e alle
austere penitenze dei Santi che non avevano commesso se non peccati veniali e
che non credevano d’aver fatto mai abbastanza per purificarsi l’anima e riparare
gli oltraggi inflitti alla divina maestà. I santi vedevano le cose meglio di
noi, e se noi non la pensiamo come loro è perchè siamo accecati dall’orgoglio.

Dobbiamo dunque, come peccatori, non solo non cercar la stima altrui,
ma disprezzarci e accettar tutte le umiliazioni che Dio vorrà mandarci.

§ II. L’invidia 845-1.

845. L’invidia è nello stesso tempo
passione e vizio capitale. Come passione, è una specie di
tristezza profonda che si prova nella sensibilità osservando il bene altrui;
impressione accompagnata da uno stringimento di cuore che ne diminuisce
l’attività e produce un sentimento d’angoscia.

Qui ci occupiamo dell’invidia soprattutto come vizio capitale, e ne
esporremo: 1° la natura;
2° la malizia;
3° i rimedi.

846.
Natura. A) L’invidia è una tendenza a rattristarsi del bene
altrui come di attentato contro la nostra superiorità.
È accompagnata dal
desiderio di vedere il prossimo privo del bene che ci offusca.

È dunque vizio che nasce dall’orgoglio, il quale non può tollerare nè
superiori nè rivali. Quando si è convinti della propria superiorità, si prova
tristezza a vedere che gli altri hanno doti pari o superiori alle nostre, o che
almeno riescono meglio di noi. Materia di invidia sono principalmente le doti
brillanti; ma nelle persone serie l’invidia mira anche a doti più sode e perfino
alla virtù.

Questo difetto si manifesta colla pena che si prova sentendo questi elogi
criticando le persone lodate.

847. B) Spesso si confonde
l’invidia con la gelosia; volendole distinguere, la gelosia viene
definita un amore eccessivo del proprio bene accompagnato dal timore che da
altri ci venga tolto. Uno, per esempio, era il primo della scuola, vede i
progressi di un condiscepolo e ne prende gelosia, perchè teme che lo privi del
primo posto. Uno possiede l’affezione d’un amico: viene a temere che gli sia
tolta da un rivale e ne prende gelosia. Si ha una numerosa clientela e si teme
che sia diminuita da un concorrente: nasce allora quella gelosia che infierisce
talora tra professionisti, artisti, letterati, e talvolta anche tra sacerdoti.
In una parola si è invidiosi del bene altrui e gelosi del proprio.

C) Vi è differenza tra invidia ed emulazione:
l’emulazione è un sentimento lodevole che ci porta ad imitare, ad uguagliare, e,
se è possibile, a superare le buone qualità altrui, sempre però con mezzi leali.

848.
Malizia. Si può studiar questa malizia in sè e negli
effetti.

A) In sè, l’invidia è di natura sua peccato mortale,
perchè è direttamente opposta alla virtù della carità che vuole che uno si
rallegri del bene altrui. Quanto più il bene invidiato è importante, tanto più
grave è il peccato; quindi, dice S. Tommaso 848-1, invidiare i beni spirituali del
prossimo, rattristarsi dei suoi progressi o dei suoi trionfi apostolici, è
peccato gravissimo. Il che è vero quando i moti d’invidia sono pienamente
acconsentiti;
ma spesso non si tratta che di impressioni, o di sentimenti
involontari o almeno poco volontari e accompagnati da poca o nessuna
riflessione, onde la colpa allora può essere tutt’al più veniale.

849. B) Negli affari
l’indivia è talvolta assai colpevole.

a) Eccita sentimenti di odio: si corre pericolo di odiare
coloro di cui si ha invidia o gelosia, e quindi di sparlarne, denigrarli,
calunniarli, desiderar loro del male.

b) Tende a seminar divisioni non solo tra gli estranei ma anche
tra i membri di una stessa famiglia (si ricordi la storia di Giuseppe), o tra
famiglie imparentate; divisioni che possono andar molto avanti e generare
inimicizie e scandali. Scinde talvolta i cattolici d’una stessa regione con gran
detrimento del bene della Chiesa.

c) Spinge alla smodata ricerca delle ricchezze e degli onori:
per superare quelli a cui si porta invidia, uno si abbandona ad eccessi di
lavoro, a intrighi più o meno leali, in cui l’onestà corre molto rischio.

d) Turba l’anima dell’invidioso: non si ha nè pace nè riposo
finchè non si è riusciti ad eclissare, a dominare i propri rivali; ed essendo
ben raro che vi si riesca, si vive in perpetue angoscie.

850.
Rimedi. Sono negativi o positivi.

A) I mezzi negativi consistono: a) nel disprezzare
i primi sentimenti d’invidia e di gelosia che sorgono in cuore, schiacciarli
come qualche cosa di ignobile, come si schiaccia un rettile velenoso;
b) nel districarsi, occupandosi d’altro; tornata poi la
calma, si riflette che le doti del prossimo non diminuiscono le nostre, ci sono
anzi stimolo ad imitarle.

851. B) Tra i mezzi
positivi, i più importanti sono due:

a) Il primo viene dalla nostra incorporazione a Cristo: in
virtù di questo domma, siamo tutti fratelli, tutti membri del corpo mistico di
cui Gesù è il capo, e le buone qualità e le fortune d’uno di questi membri
ridondano sugli altri; onde, invece di rattristarci della superiorità dei
fratelli, dobbiamo rallegrarcene, secondo la dottrina di
S. Paolo, 851-1 perchè contribuisce al bene comune e
anche al nostro bene particolare. — Se poi le altrui virtù diventano per
noi oggetto di invidia, “in cambio di portar loro invidia e gelosia per ragione
di queste virtù, come spesso avviene per suggestione del demonio e di Gesù
Cristo nel Santo Sacramento, onorando in lui la fonte di queste virtù, e
chiedendogli la grazia di parteciparvi e di comunicarvi; e vedrete quanto questa
pratica vi tornerà utile e vantaggiosa” 851-2.

852. b) Il secondo mezzo
consiste nel coltivar l’emulazione, lodevole e cristiano sentimento che
c’invita a imitare e anche a sorpassare, sorretti dalla grazia di Dio, le virtù
del prossimo.

Perchè sia buona e si distingua dall’invidia, l’emulazione cristiana
dev’essere: 1) onesta nell’oggetto, vale a dire che non deve mirare
ai trionfi ma alle virtù altrui per imitarle; 2) nobile
nell’intenzione,
non cercando di trionfare sugli altri, di umiliarli, di
dominarli, ma di divenir migliori, se è possibile, perchè Dio sia più onorato e
la Chiesa più rispettata; 3) leale nei mezzi, usando, per conseguire
il fine, non l’intrigo, l’astuzia o qualsiasi altro illecito procedere, ma lo
sforzo, il lavoro, il buon uso dei doni divini.

Così intesa, l’emulazione è efficace rimedio contro
l’invidia, perchè senza punto ledere la carità è ottimo stimolo. Infatti il
considerare come modelli i migliori tra i fratelli per imitarli, o anche per
superarli, è in sostanza un riconoscere la nostra imperfezione e un volervi
rimediare giovandoci dei buoni esempi di coloro che ci stanno attorno. E non è
questo in fondo un accostarsi a ciò che faceva S. Paolo quando invitava i
discepoli ad essere suoi imitatori come egli era di Cristo: “Imitatores mei
estote sicut et ego Christi”
852-1 e seguire i consigli che dava ai
cristiani di osservarsi l’un l’altro per eccitarsi a carità e a buone opere:
“Consideremus invicem in provocationem caritatis et bonorum
operum”?
 852-2. E non è un entrare nello spirito della
Chiesa, che, proponendo i Santi alla nostra imitazione, ci provoca a nobile e
santa emulazione? Così l’invidia non sarà per noi che occasione di coltivar la
virtù.

§ III. L’ira 853-1.

L’ira (o collera) è una deviazione di quell’instintivo sentimento che ci
porta a difenderci quando siamo assaliti, respingendo la forza con la forza. Ne
diremo: 1° la natura;
2° la malizia;
3° i rimedii.

I. Natura dell’ira.

853. C’è un’ira-passione e
un’ira-sentimento.

1° L’ira, considerata come passione, è un violento bisogno di
reazione, determinato da un patimento o da una contrarietà fisica o morale.
Questa contrarietà fa scattare una violenta emozione che tende le forze allo
scopo di vincere la difficoltà: si è allora portati a scaricar l’ira sulle
persone, sugli animali o sulle cose.

Se ne distinguono due forme principali: l’ira rossa o espansiva nei
forti, e l’ira bianca o pallida o spasmodica nei deboli. Nella prima, il
cuore batte con violenza e spinge il sangue alla periferia, la respirazione si
accelera, il viso s’imporpora, il collo si gonfia, le vene si rilevano sotto la
pelle; i capelli si rizzano, lo sguardo lampeggia, gli occhi paiono uscir dalle
orbite, la narici si dilatono, la voce diventa rauca, interrotta, esuberante. La
forza muscolare aumenta: tutto il corpo è teso per la lotta e il gesto
irresistibile colpisce, spezza o allontana violentemente l’ostacolo. — Nell’ira
bianca, il cuore si serra, la respirazione diventa difficile, il viso si fa
estremamente pallido, un sudore freddo bagna la fronte, la mascelle si chiudono,
si sta in cupo silenzio, ma l’agitazione internamente contenuta finisce con
scoppiar brutalmente e si sfoga in colpi violenti.

854. 2° L’ira, considerata come
sentimento, è un desiderio ardente di respingere e di punire
l’aggressore.

A) Vi è un’ira legittima, un santo sdegno che altro non è se non
desiderio ardente, ma ragionevole, d’infliggere ai colpevoli il giusto castigo.
Così Nostro Signore si accese di giusto sdegno contro i venditori che
profanavano col traffico la casa di suo Padre 854-1; il sommo sacerdote Eli fu invece
severamente rimproverato per non aver represso la cattiva condotta dei figli.

Perchè dunque l’ira sia legittima, è necessario che sia:
agiusta nell’oggetto, non mirando a punire se non
chi lo merita e nella misura che merita; bmoderata
nell’esercizio, non oltrepassando ciò che l’offesa commessa richiede e
seguendo l’ordine voluto dalla giustizia; ccaritatevole
nell’intenzione, non lasciandosi andare a sentimenti di odio, ma solo
cercando la restaurazione dell’ordine e l’emenda del reo. Se alcuna di queste
condizioni manchi, si avrà un biasimevole eccesso. L’ira è legittima
particolarmente nei superiori e nei genitori; ma anche i semplici cittadini
hanno talvolta il diritto e il dovere di assecondarla per difendere gl’interessi
della città e impedire il trionfo dei malvagi; vi sono infatti uomini pei quali
poco vale la dolcezza e che temono solo il castigo.

855. B) Ma l’ira vizio
capitale è violento e smodato desiderio di punire il prossimo senza tener conto
delle tre indicate condizioni. L’ira è spesso accompagnata da odio, che
cerca non solo di respingere l’aggressione ma di trarne vendetta, onde è
sentimento più meditato e più durevole, e che ha quindi più gravi conseguenze.

856. L’ira ha vari gradi: a) al principio è solo moto d’impazienza: uno si mostra di
malumore alla prima contrarietà, al primo cattivo successo;
b) poi è impeto di collera, onde uno si irrita oltre misura,
manifestando il malcontento con gesti disordinati;
c) talvolta giunge alla violenza, sfogandosi non solo in
parole ma anche con colpi: d) e può anche arrivare fino al
furore, che è passeggiera pazzia; il collerico non è più padrone di sè,
ma trascorre a parole incoerenti, a gesti talmente disordinati, che si direbbe
vera pazzia; e) finalmente degenera talvolta in odio
implacabile, che non respira che vendetta e giunge fino a desiderar la morte
dell’avversario. Conviene saper distinguere questi vari gradi per valutarne la
malizia.

NOTE

839-1 Ps. XXXVIII, 6.

840-1 II Cor., IX, 15.

840-2 I Cor., IV, 7.

842-1 I Cor., VI, 20.

842-2 Phil., II, 13.

842-3 Prefazio della festa di tutti i
Santi.

845-1 S. Cipriano, De zelo
et livore, P. L.,
IV, 637-652; S. Gregorio, Moral.,
l. V, c. 46, P. L., LXXV, 727-730; S. Tommaso, IIª
IIæ, q. 36; De malo, q. 10; Alibert, op.
cit.
, t. I, p. 331-340; Descuret, t. II, p. 241-274; Laumonier,
op.
cit.
, c. V.

848-1 “Est tamen invidia quæ inter gravissima peccata computatur, scilicet
invidentia fraternæ
gratiæ,
secundum quod aliquis dolet de ipso augmento gratiæ”. (Sum.
Theol.,
IIª IIæ, q. 36, a. 4, ad 2).

851-1 I Rom., XII, 15-16.

851-2 G. G. Olier, Cat.
Chrét.
P. IIª, lez.

852-1 I Cor., XI, I.

852-2 Hebr., X, 24.

853-1 S. Gregorio, Morali, l. V., c. 45, P. L., LXXV, 727-730;
S. Tommaso, IIª, IIæ, q. 158; De Malo, q. 12;
Descuret, op.
cit.
, t. II, I. 57; S. Thomas, op.
cit.
, c. IX, p. 94-103; Laumonier, op.
cit.
, c. VI.

854-1 Joan., II, 13-17.

Quest’edizione digitale preparata da Martin Guy .

Ultima revisione: 2 febbraio 2006.