Libro III Cap. 19 – La riunificazione italiana (II)

 

Prof. A. Torresani. 19. 3  La seconda guerra d’Indipendenza – 19. 4  La spedizione dei Mille e la conquista del Sud – 19. 5  La proclamazione del regno d’Italia – 19. 6 Cronologia essenziale – 19. 7  Il documento storico – 19. 8  In biblioteca.

19. 3  La seconda guerra d’indipendenza
     Un altro avvenimento clamoroso, avvenuto nel gennaio 1858, riportò in primo piano il problema italiano: a Parigi, quattro attentatori italiani, tra cui il più noto era Felice Orsini, lan­ciarono bombe sulla carrozza occupata da Napoleone III e dal­la moglie.  Ci furono otto morti e circa 150 feriti. 
Felice Orsini L’Orsini era un mazziniano che aveva ricoperto im­portanti incarichi al tempo della Repubblica romana, implicato nelle congiure mazziniane fino al 1854, quando fu arrestato in Ungheria dalla polizia austriaca.  Rinchiuso nel castello di Man­tova, evase nel 1856, recandosi in Gran Bretagna dove pubblicò un libro di memorie con critiche al Mazzini. L’attentato ai danni di Napoleone III gli fu suggerito da un repubblicano francese, che nell’imperatore vedeva il massimo esponente della reazione. 
Reazioni all’attentato Il Mazzini, che una volta tanto era estraneo all’attentato, fu accusato di precipitare l’Europa nel caos.  A Parigi per un po’ di tempo sembrò che si rafforzasse la corrente filoaustriaca ai danni della politica filopiemontese seguita da Napoleone III.  Il Cavour dovette lottare per impedire che dilagasse anche in Piemonte un’ondata di repressioni antide­mocratiche. Il processo a carico degli attentatori ebbe una svolta clamo­rosa nella penultima udienza quando il difensore lesse una lette­ra dell’Orsini in cui rifiutava la grazia, ma scon­giurava Napoleone III di restituire l’indipendenza all’Italia, con la gratitudine di 25 milioni d’Italiani.  Il processo si concluse con due condanne a morte e due ergastoli.
Diplomazia segreta Frattanto tra Parigi e Torino avvenivano trattative segrete, condotte per mezzo di messaggi orali tra Ca­vour e Napoleone III.  Le trattative riguardavano un progetto di matri­monio tra Clotilde, la giovanissima figlia di Vittorio Emanuele II e il principe Girolamo Bonaparte, cugino dell’imperatore. Il matrimonio doveva preludere a un’alleanza franco-piemontese per cacciare l’Austria dal Lombardo-Veneto, formando un regno dell’Alta Italia sotto i Savoia. Prendendo a pretesto le cure termali, Napoleone III si recò a Plombières nei Vosgi.  Ne­gli stessi giorni, il Cavour prese congedo per recarsi dai pa­renti di Ginevra, donde ripartì per Plombières. Il 20 luglio 1858 incontrò  Napoleone III. Forse questi pensava di assegna­re il trono di Toscana al cugino Girolamo.  Chiese la cessione alla Francia di Nizza e della Savoia, per giustificare la guerra davanti all’opinione pub­blica francese.
Napoleone III supera l’opposizione interna Il Walewski e l’impe­ratrice  Eugenia, gli oppositori della politica italiana, solo a fatica furono convinti a cedere.  Il mito napoleonico esi­geva il trionfo delle armi per cancellare l’onta del trattato di Vienna del 1815. Anche la guerra di Crimea aveva avuto questa funzione, ma essa era avvenuta in un luogo lontano, mentre la guerra in Italia si sarebbe combattuta negli stessi luoghi che avevano consacrato la fama di Napoleone I. Con la sconfitta del­l’Austria,  l’Italia sarebbe passata sotto l’egemonia fran­cese.
Le intenzioni del Cavour Il Cavour non pensava di porre il Piemonte sotto la tutela francese.  Gli accordi con la Società Nazionale avevano il compito di far cadere tutta l’Italia sotto il dominio piemontese che così avrebbe fatto dell’Italia una grande potenza, in grado di partecipare al concerto europeo fondato sull’equilibrio: i buoni rapporti con la Gran Bretagna avrebbero funzionato da correttivo nei confronti di eccessive pretese della Francia. Tuttavia, il compito del Cavour nell’au­tunno e nell’inverno del 1858 non fu semplice perché doveva con­trollare che a Parigi gli oppositori non pre­valessero, e che in Italia fosse l’Austria a dichiarare la guer­ra, permettendo a Napoleone III di intervenire a difesa dell’or­dine internazionale.
Verso la guerra Con l’inizio dell’anno nuovo, la diplomazia col­se da alcuni segni l’approssimarsi della guerra. A Parigi, il giorno di Capodanno Napoleone III disse all’amba­sciatore austriaco: “Mi dispiace che i nostri rapporti non siano buoni quanto desidererei”.  A Torino, il 10 gennaio, all’apertura della sessione del Parlamento, Vittorio Emanuele II lesse un di­scorso preparato dal Cavour e corretto nella chiusa da Napoleone III con alcune parole giudicate esplosive: “Non possiamo rimanere insensibili al grido di dolore che giunge fino a noi da ogni par­te d’Italia”.
Il matrimonio di Girolamo Bonaparte Pochi giorni dopo giunse a Torino il principe Girolamo per celebrare il matrimonio con Clo­tilde e per siglare il trattato di alleanza tra Francia e Regno di Sardegna.  Il trattato si proponeva di liberare l’Italia dall’occupazione austriaca, permettendo la formazione di un regno dell’Alta Italia; era prevista la cessione di Nizza e della Sa­voia e il mantenimento della sovranità del papa.  Le spese di guerra sarebbero state a carico del Piemonte. Non erano previste insurrezioni o l’impiego di volontari per non dare alla guerra un carattere democratico.
Iniziative diplomatiche All’inizio di febbraio, il Cavour fece votare al Parlamento l’autorizzazione a contrarre un prestito di 50 milioni di lire.  In Francia cominciò una violenta campagna di stampa contro l’Austria per preparare l’opinione pubblica alla guerra.  L’Austria scontava il suo isolamento diplomatico: né Prussia, né Russia, né Gran Bretagna sarebbero state al suo fianco. Per di più, la causa italiana godeva di generale simpatia, perché il Piemonte sembrava seguire una politica libe­rale, a differenza dell’Austria, del governo papale e di  quello di Napoli. La Gran Bretagna cercò  di impedire l’intervento mili­tare di Napoleone III in Italia, ma favorendo  ugualmente l’uni­ficazione della penisola.  In Prussia non si voleva la sconfitta austriaca, ma neppure la sua vittoria.
Cresce la tensione Ad aprile, tamburi di guerra e proposte di pace da trattare in un congresso internazionale con la presenza del Piemonte e degli altri Stati italiani, si susseguirono, finché l’Austria compì l’errore di inviare un ultimatum al Pie­monte con l’ingiunzione di sciogliere i corpi di volontari af­fluiti in Piemonte. Il tempo per la risposta era di tre giorni, a partire dal 23 aprile. Il 26 aprile giunse puntuale la risposta negativa del Piemonte e l’ordine di marcia per l’esercito france­se.
Inizia la guerra In Italia, l’accordo tra il Cavour, la Società Nazionale e gli altri movimenti moderati fu perfetto.  Per la du­rata del conflitto, il re assunse  in Piemonte i pieni poteri. Garibaldi, col grado di maggiore generale dell’esercito sardo, guidava la brigata Cacciatori delle Alpi (circa 3500 uomini). Garibaldi non fu favorito né per  qualità di armamento, né per quantità, poiché Napoleone III non desiderava la presenza di de­mocratici accanto a lui. I repubblicani si unirono a Ga­ribaldi, ma senza pregiudiziali antimonarchiche. Rispetto al 1848, nella seconda guerra d’indipendenza non avvennero quelle astiose discussioni che avevano indebolito l’azione comune contro l’Austria: la volontà di battersi sembrava più forte della volontà di mettersi a capo del futuro governo d’Italia.
L’esercito piemontese L’esercito piemontese era forte di circa 65.000 uomini, ordinati in cinque divisioni di fanteria, una di cavalleria e la brigata Cacciatori delle Alpi:  appariva migliore dell’esercito del 1848. L’esercito austriaco non aveva più il Radetzky, bensì era guidato dal maresciallo Gyulai, un ungherese privo di fantasia nell’azione di comando. Gli austriaci avevano forze più che doppie rispetto a quelle pie­montesi, concentrate nella zona del basso Ticino. L’esercito francese era forte di 15 divisioni più tre di cavalleria e stava affluendo dal passo del Cenisio e attraverso il porto di Genova.
Prudenza del piano di guerra austriaco Si sapeva che occorrevano almeno 15 giorni ai francesi per schierare le loro truppe e perciò il primo urto austriaco doveva esser sostenuto dall’eser­cito piemontese.  Il passaggio del Ticino da parte austriaca av­venne solo il 29 aprile a causa di piogge insistenti: per di più i piemontesi avevano allagato tutta la pianura in Lomellina e nel Vercellese, per ritardare l’avanzata austriaca.  Gyulai non com­prese che occorreva sconfiggere l’esercito piemontese prima dell’arrivo dei francesi; al contrario, egli ritenne prudente non avanzare in Piemonte, preferendo mantenersi vicino alle fortezze del quadrilatero, per attendere  rinforzi e passare all’of­fensiva come aveva fatto il Radetzky nel 1848. Per di più temeva l’insurrezione dei lombardi alle sue spalle: decise perciò, dopo aver occupato Piacenza, di concentrare tra il Po e il fiume Sesia il grosso delle truppe.
La battaglia di Magenta Il 20 maggio anche Napoleone III rag­giunse il teatro di guerra. Utilizzando la ferrovia per rendere più celeri gli spostamenti, Napoleone III concentrò le sue truppe più a nord degli austriaci, presso Novara. I pie­montesi passarono la Sesia all’altezza di Vercelli e occuparono Palestro, dove respinsero un attacco austriaco.  Il Gyulai si re­se conto che stava avvenendo una grande manovra di aggiramento e perciò ritirò le sue truppe al di qua del Ticino.  Napoleone III inseguì l’esercito austriaco, passando a sua volta il Ticino. Il 4 giugno iniziò la battaglia di Magenta e solo verso sera l’arrivo del generale Mac Mahon risolse il combattimento in una vittoria francese. Gyulai si ritirò verso il quadrilatero, abbandonando Milano nella quale fecero il loro ingresso Vittorio Emanuele II e Napoleone III, mentre Garibaldi seguiva la più dif­ficile strada pedemontana entrando l’8 giugno in Bergamo. Dopo la battaglia di Magenta gli austriaci dovettero abbandonare i ducati padani e lo Stato della Chiesa:  in Emilia e in Toscana si formarono governi provvisori che offrirono a Vittorio Emanuele II l’annessione al Piemonte dopo l’effettuazione dei plebisciti.
Crisi di comando nell’esercito austriaco Il 16 giugno, il Gyulai dopo aver radunato tutta la sua armata tra il fiume Chiese e il Mincio, fu sostituito nel comando. Un’al­tra armata stava avanzando, men­tre il comando supremo era assunto dall’imperatore Francesco Giuseppe, nel tentativo di rianimare le truppe. Il giorno 24 giu­gno avvennero le due battaglie di Solferino e di San Mar­tino.
Solferino e San Martino A Solferino si scontrarono circa 80.000 soldati francesi contro 90.000 austriaci, mentre a San Martino 31.000 piemontesi si batterono contro 29.000 austriaci. Al termine della battaglia gli austriaci si ri­tirarono al di là del Mincio nelle fortezze del quadrilatero. Solo il 30 giugno cominciò l’assedio di Peschiera e l’investimen­to di Verona, mentre la flotta piemontese risaliva l’Adriatico per attaccare Venezia. All’improvviso, il 5 luglio, giunse la no­tizia della richiesta di armistizio fatta da Napoleone III a Francesco Giuseppe. L’11 luglio, i due imperatori si incontrarono a Villafranca per stabilire i preliminari di pace.
Armistizio di Villafranca È lecito sospettare che un giocatore incallito come Napoleone III avesse meditato fin da prima della guerra di arrestarsi dopo la conquista della Lombardia, ma la causa immediata di quella decisione va ricercata negli sviluppi politici accaduti nel resto d’Italia e in Europa.
Caduta del regime granducale in Toscana In Toscana la Società Nazionale assunse il controllo del Granducato senza alcuna diffi­coltà: se non procedette subito all’annessione al Piemonte ciò si dovette all’ostilità di Napoleone. 
I ducati di Modena e Parma A Parma il duca la­sciò la città in mano a una commissione di governo che assunse il potere in attesa di cederlo al re di Sardegna. Il duca di Modena abbandonò il suo Stato dopo la battaglia di Magenta: il municipio dichiarò deposto il duca fuggitivo e valido il ple­biscito di unione al Piemonte del 1848. 
Cade il governo papale in Romagna Nelle legazioni pontificie di Romagna, la partenza da Bologna delle truppe austriache fu seguita da una sollevazio­ne popolare, offrendo la dittatura a Vittorio Emanuele II. La stessa cosa avvenne a Raven­na, Forlì e Ferrara. Anche le Marche e l’Umbria insorsero, ma qui le truppe pontificie reagirono, recuperando le due regioni. Napo­leone III si rese conto di aver fatto al Piemonte un dono ecces­sivo. Inoltre, la prosecuzione della guerra, comportando l’asse­dio di grandi fortezze, sarebbe stata lunga e sanguinosa. Sul piano internazionale, il governo prussiano si fece promotore di una nuova mediazione di concerto con Russia e Gran Bretagna. Di fronte a questi sviluppi interna­zionali, Francesco Giuseppe e Napoleone III preferirono aggiusta­re le loro controversie senza interventi estranei. I punti qua­lificanti dei preliminari di pace prevedevano una con­federazione degli Stati italiani; la presidenza della confederazione al Papa; la cessione della Lombardia, meno Mantova e Peschiera, all’imperatore dei francesi, che l’avrebbe rimessa al re di Sardegna; il Veneto sarebbe rimasto sotto la corona au­striaca, pur facendo parte della confederazione italiana; il granduca di Toscana e il duca di Modena dovevano rientrare nei loro territori; i due imperatori avrebbero chiesto al Papa di introdurre le riforme divenute urgenti.
Dimissioni del Cavour Il giorno dopo, 12 luglio, a Valeggio sul Mincio Napoleone III ricevette il ministro degli esteri austriaco Rechberg, stabilendo Zurigo quale sede per definire la pace. Quando il Cavour ebbe sentore di ciò che accadeva, si precipitò al fronte per dissuadere Vittorio Emanuele II dall’accettare quelle condizioni. Il Cavour aveva cercato di giocare Napoleone III, mettendolo davanti al fatto compiuto dell’impossibilità di un regno di Toscana per Girolamo Bonaparte, ma a sua volta fu giocato da Napoleone III che, lasciando il Veneto all’Austria, manteneva intatti gli ostacoli politici per la riunificazione d’Italia. Vittorio Emanuele II non comprese subito che cosa com­portasse l’armistizio: l’insofferenza nei confronti del Cavour lo indusse ad accogliere le sue dimissioni.  Il re dette l’incarico al La Marmora di formare il nuovo governo.
Ricerca di nuovi equilibri internazionali La tregua di Villa­franca produsse tra i patrioti delusione nei confronti di Napo­leone III, e la volontà di resistere alla restaurazione degli an­tichi sovrani nei ducati padani, nelle Legazioni, in Toscana.  Napoleone III si trovava ora nella difficile situazione di chi aveva fatto una guerra per liberare l’Italia dall’egemonia au­striaca, ma che, nelle trattative di pace avrebbe voluto restau­rare governi favorevoli agli Absburgo negli Stati da cui erano stati scacciati, meno la Lombardia. Nella seconda guerra d’indi­pendenza il movimento di riunificazione italiana era apparso tan­to maturo da venir accettato dalle potenze europee perché ritenu­to in grado di equilibrare l’eccessiva potenza francese.
Debolezza del governo La Marmora Il ministero La Marmora appariva debole e spese gran parte delle sue forze nel compito di tenere lontano dal potere il Cavour, ritenuto da tutti il solo in grado di tener testa a Napoleone III.  Per di più, il Cavour si era stancato di star lontano dal potere: di fatto gui­dava ancora la politica piemontese.
Le annessioni In Toscana furono fatte le elezioni in agosto e la nuova Camera dichiarò decaduta la dinastia di Lorena, votando l’annessione al Piemonte.  La stessa cosa fecero i ducati padani e le Legazioni di Romagna. Vittorio Emanuele  II accolse a Torino le delegazioni che offrivano le annessioni votate dai governi provvisori.
Trattato di Zurigo Il Mazzini, dopo la tregua di Villafranca, ritenne che esistessero le condizioni per l’attacco contro ciò che restava dello Stato della Chiesa e contro il regno delle Due Sicilie, approfittando della debolezza dell’Austria: espresse queste idee in una lettera aperta a Vittorio Emanuele II, dicendo di esser disposto ad accettare la monarchia se si metteva a capo della lotta per l’unità nazionale. Nel frattempo si concluse la conferenza di pace di Zurigo: i preliminari di Villafranca furono confermati, ma non si parlò più di restaurare i sovrani spodestati.
Lo Stato della Chiesa A dicembre, Napoleone III, fece pubblicare un opuscolo anonimo, intitolato Il Papa e il Congresso, in cui si affermava che il dominio temporale era necessario al Papa, ma do­veva ridursi a un territorio simbolico, con entrate finanziarie garantite dalle potenze cattoliche, protetto da un esercito fede­rale italiano. Per intanto, il Papa doveva abbandonare le Lega­zioni di Romagna giudicate indifendibili.  L’opuscolo fu accolto con entusiasmo dal Cavour, dalle potenze estere, ma non da Pio IX. Da quel momento non si parlò più di un congresso sul futuro dell’Italia centrale: sul piano internazionale si accettò il fatto compiuto. Un tentativo di Garibaldi di entrare nello Stato della Chiesa fu impedito. Il re convinse Garibaldi a tornare a vita privata, almeno per un po’ di tempo.
Cavour ritorna al potere Il Cavour, stanco di aspettare, provocò nel gennaio 1860 la crisi politica che portò alle dimissioni del governo La Marmora: il re affidò l’incarico del nuovo go­verno al Cavour, che fece sciogliere la Camera e indire nuove elezioni.  Il Cavour comprese che l’annessione definitiva dell’I­talia centrale era possibile solo a patto di cedere Nizza e la Savoia alla Francia. I plebisciti in Emilia e in Toscana furono predisposti perché il risultato fosse quello che ci si attendeva a Torino. Il 25 marzo si tennero le elezioni politiche generali negli antichi Stati sardi, in Lombardia, in Emilia e in Toscana, con pieno successo di Cavour.
Nizza e la Savoia alla Francia Il 1° aprile, alle popolazioni di Nizza e della Savoia fu annunciato il contenuto dell’accordo in­tervenuto tra Torino e Parigi, e il 15 aprile furono tenuti i plebisciti che anche qui, quasi all’unanimità, decisero l’annes­sione alla Francia.

19. 4  La spedizione dei Mille e la conquista del sud
     La fine del Regno delle Due Sicilie ha qualcosa di patetico: dopo la sua fine, si vide che non era l’incarnazione del male, come l’aveva dipinto la pubblicistica filopiemontese o i libelli dei fuoriusciti. 
Francesco II re di Napoli Il 22 maggio 1859, Ferdinando II, so­prannominato Re bomba perché aveva avuto il torto di difendere il suo regno anche a costo di impiegare le armi contro i ribelli, morì a Caserta.  Gli succedeva il figlio, Francesco II. Questi  era cognato dell’imperatore Francesco Giuseppe, ma quell’illustre parentela non lo difese dal deciso attacco del patriottismo ita­liano. Dopo il suo avvento al trono, i rappresentanti diplomatici delle grandi potenze raggiunsero Napoli per orientare la politica del giovane re. L’Austria si accontentava della neutralità e del mantenimento di un governo che non facesse concessioni ai libera­li. La Gran Bretagna auspicava la neutralità, ma suggeriva la concessione della costituzione e un governo liberale.  La Francia non aveva ancora scelto una politica chiara.
Neutralità napoletana Il 7 giugno 1859, Francesco II nominò pri­mo ministro il generale Filangieri che come primo atto di governo dichiarò la neutralità delle Due Sicilie nella guerra in atto nell’Italia settentrionale.  Rimanevano immutati i contrasti di fondo tra la Sicilia e la parte continentale del regno.
L’insurrezione della Sicilia La preparazione dell’insurrezione finale fu opera di due esuli siciliani, Rosolino Pilo e Francesco Crispi, repubblicani e mazziniani. La proposta di far insorgere la Sicilia fu sottoposta al governo di Torino da parte di un gruppo di nobili moderati che miravano a ottenere per l’isola una larga autonomia legislativa e amministrativa. Il Cavour, dopo il ritorno al potere, cominciò a considerare il progetto di rivolu­zione in Sicilia, assumendo il punto di vista della nobiltà ter­riera.
Pilo e Crispi Rosolino Pilo, più del Crispi, seguiva da vicino i consigli del Mazzini e fu in grado di iniziare la rivolta. Garibaldi, dopo la delusione del mancato attacco contro Roma si era avvicinato ai mazziniani i quali disponevano di denaro raccolto mediante sottoscrizioni. Garibaldi disponeva di fondi ottenuti dal governo inglese e perciò aveva titolo per assumere il comando della progettata spedizione.
L’insurrezione di Francesco Riso Il piano d’azione era semplice: far sollevare l’isola e poi giungere con una spedizione di soc­corso. L’insurrezione siciliana iniziò tra il 3 e il 4 aprile a Palermo, capitanata da Francesco Riso, un fontaniere provvisto di un certo quantitativo di armi. Dopo l’insurrezione in città, do­vevano giungere dalle montagne squadre di appoggio.  Il tentativo fallì, perché la polizia e l’esercito borbonico non si fecero co­gliere impreparati, ma nei giorni successivi la rivolta divampò in numerose città minori, costringendo le truppe ad accorrere da una località all’altra, perché i rivoltosi impararono la tecnica della guerriglia. L’arrivo di Roso­lino Pilo rianimò i rivoltosi, ma ancor di più la notizia dell’arrivo di Garibaldi a Marsala.
Garibaldi a capo dei Mille Il Garibaldi, ad aprile, aveva chie­sto al re il comando di truppe regolari.  Cavour si oppose a una aggressione, senza la regolare dichiarazione di guerra al regno delle Due Sicilie, e per dichiarare guerra occorreva un pretesto. Garibaldi dovette reclutare volontari dando all’impresa un aspetto mazziniano. Abbiamo qui la conferma della politica del doppio binario, che il Cavour si affrettò a percor­rere. Ordinò all’arsenale dell’esercito  di cedere mille vecchi fucili alla Società Nazionale, che li consegnò a Garibaldi perché nessun altro era in grado di guidare una spedizione così priva di preparazione.
Partenza da Quarto Dopo molte esitazioni, anche perché le noti­zie che giungevano dalla Sicilia apparivano contraddittorie, la sera del 5 maggio 1860 una quarantina di volontari al comando di Nino Bixio si impadronirono di due vapori, di concerto con la compagnia proprietaria, la Ru­battino. La spedizione dei Mille partì senza munizioni perché mancò all’appuntamento la barca che le trasportava. Il 7 maggio Garibaldi fece attraccare le navi a Talamone in Toscana, presen­tandosi in divisa di generale piemontese al comandante della for­tezza per avere quanto poteva essere utile alla spedizione.  Il 9 maggio le due navi ripresero il mare dirigendosi verso la Sicilia occidentale.  I volontari imbarcati erano quasi 1100. In maggio­ranza erano lombardi (434) e quasi la metà di costoro erano ber­gamaschi; poi venivano i veneti (quasi 200) e i liguri (circa 150). I toscani e i siciliani erano pochi: 78 i primi, 45 i se­condi. Erano in prevalenza borghesi, molti avevano militato nelle rivoluzioni del 1848 e nella guerra del 1859.  La scelta di Mar­sala come porto di attracco avvenne all’ultimo momento, probabil­mente fu suggerita dalla presenza nel porto di navi inglesi.
Garibaldi in Sicilia  Per venti giorni Garibaldi poté contare solo sulle sue forze, riuscendo nell’impresa di sconfiggere un esercito di circa 25.000 uomini. L’abilità di Garibaldi è innega­bile anche se aveva dalla sua parte l’opinione pubblica e l’ap­poggio dei proprietari terrieri ai quali aveva garantito di man­tenere intatto l’assetto patrimoniale dell’isola. Inoltre, occor­re aggiungere che il nome di Garibaldi bastava a mettere in crisi i comandanti avversari. Il grosso delle truppe borboniche era concentrato a Palermo, donde partivano colonne mobili per attac­care i paesi insorti.  Una di queste colonne mobili fu inviata il 15 maggio a Calatafimi, forte di 2500 uomini. Garibaldi, essendo i suoi uomini armati di pessimi fuci­li, fece compiere un attacco alla baionetta, respinse i borbonici e li inseguì fin sulle posizioni di partenza.  Dopo sei ore di combattimento, il generale borbonico Landi si ritirò a Calatafi­mi: i garibaldini avevano avuto una trentina di morti e circa 150 feriti, i borbonici altrettanti. Fu perciò una piccola batta­glia, ma con effetto morale grandissimo.
Crollo borbonico dopo Calatafimi Il generale Landi si ritirò ad Alcamo e poi a Partinico, attaccato dalla popolazione locale. Il governo di Napoli decise di inviare nell’isola il vecchio genera­le Lanza con l’ordine di abbandonare Palermo, ritirarsi su Calta­nissetta per riordinare l’esercito e poi compiere una decisa of­fensiva contro Palermo e la Sicilia occidentale.  La manovra fu impedita da una serie di scontri intorno a Palermo culminati con l’attacco di Garibaldi avvenuto tra il 26 e il 27 maggio: un drappello di volontari penetrò in città, la popolazione scese nelle strade, costruì le barricate e isolò le truppe borboniche in pochi ridotti. 
La caduta di Palermo Dal forte di Castellammare iniziò un bom­bardamento sulla città con molti danni e vittime. I gari­baldini non avevano munizioni, i borbonici non avevano viveri e perciò fu concordata una tregua con la mediazione inglese. L’armistizio fu prorogato fino al 6 giugno, giorno in cui il ge­nerale Lanza decise di abbandonare Palermo.  Il 19 giugno le truppe borboniche presenti a Palermo avevano completato lo sgom­bero della città.
Arrivano i rifornimenti Dopo questi successi la diplomazia si mise in azione.  Il Cavour decise di inviare aiuti: ma soprattutto un uomo di sua fiducia, Giuseppe La Farina.  La Gran Bretagna era favorevole a Garibaldi, ma temeva che la riunificazione comportasse nuove concessioni territoriali alla Francia.  A Parigi la stampa elogiò l’operato di Garibaldi.  I democratici e i mazziniani perdettero un poco alla volta la di­rezione del movimento di liberazione anche se il Bertani riuscì a montare in breve l’efficiente organizzazione “Soccorso a Garibal­di” che raccolse denari, rifornimenti e volontari a rinforzo del­la rivoluzione in Sicilia.  Furono raccolti 6 milioni di lire, una somma enorme, versata in gran parte alla tesoreria del gover­no provvisorio in Sicilia.  Il Bertani e il Mazzini, rientrato clandestinamente a Genova, si proponevano l’attacco contro lo Stato della Chiesa, ma il Cavour cercava di evitare questa even­tualità, per non entrare in conflitto con Napoleone III.  Tra giugno e luglio affluirono in Sicilia circa 15.000 volontari.  L’arrivo  del La Farina non fu, invece,  una decisione felice perché Garibaldi diffidava di lui entrando in aspro contrasto personale. 
Contrasto tra Crispi e La Farina In questa prima fase della con­quista del sud fu importante l’opera del Crispi che aveva spicca­te capacità di mediazione politica e che organizzò il 2 giugno il primo governo provvisorio per mantenere l’ordine pubblico sempre più turbato dagli attacchi di gruppi di contadini contro le pro­prietà dei nobili e contro i caselli daziari.  Infatti, i conta­dini, dopo aver partecipato alla prima fase della rivoluzione, rifiutavano di arruolarsi tra i garibaldini.  Il La Farina, verso la fine di giugno, provocò una dimostrazione popolare contro il Crispi, obbligato a dimettersi, ma pochi giorni dopo anche il La Farina fu arrestato da Garibaldi ed espulso dalla Sicilia a causa dell’insistente richiesta di proclamare l’immediata annessione della Sicilia al Piemonte, rimandata invece dal Garibaldi per  non subire intralci politici in attesa della conclusione della guerra il cui fine era Roma.
Tardiva svolta politica di Francesco II A Napoli, il re France­sco II decise di concedere la costituzione, un’amnistia generale, l’adozione del tricolore e l’apertura di trattative col Regno di Sardegna. Il nuovo governo permise violente dimostrazioni a Napo­li contro la polizia che finì per disgregarsi.  Il nuovo prefetto Liborio Romano, ricostituì la polizia ricorrendo alla camorra, ma questi provvedimenti apparivano tardivi. Il timore di una solle­vazione su base sociale spinse i proprietari a orientarsi verso la soluzione unitaria: ben venga re  Vittorio Emanuele purché fi­nisca la confusione. Tra le masse  popolari, invece, si diffuse una specie di attesa messianica nei confronti di Garibaldi come se egli avesse il potere di far sparire la miseria. Il Cavour cercò di far cadere il regime borbonico a Napoli senza l’inter­vento di Garibaldi.
Crolla la resistenza borbonica in Sicilia In Sicilia, tranne che a Messina, le forze borboniche si arresero ovunque. L’esercito borbonico tentò l’occupazione di Milazzo: la battaglia fu sangui­nosa perché i garibaldini perdettero circa 800 uomini, ma l’eser­cito napoletano dovette ritirarsi abbandonando tutto (24 luglio).
Garibaldi prosegue la guerra Il governo borbonico ricorse alla diplomazia per tentare di impedire il passaggio di Garibaldi sul continente. Il Cavour volentieri l’avrebbe impedito, ma il re Vittorio Emanuele II continuava nei suoi tentativi di politica personale e la spuntò. Cavour dovette rabbonire le grandi poten­ze, aiutando di fatto il Garibaldi purché facesse in fretta.  Il Cavour cercava di far scoppiare la rivolta a Napoli prima dell’arrivo di Garibaldi temendo che il dittatore, dopo aver li­berato mezza Italia, tentasse di proclamare un regime repubblica­no, forte del consenso dell’opinione pubblica europea. Il tenta­tivo di insurrezione fallì perché il Garibaldi compì una marcia forzata arrivando a precedere anche le sue truppe.
Garibaldi a Napoli Dopo aver passato lo stretto di Messina, tra il 20 e il 21 agosto, fu occupata Reggio Calabria. Il 2 settembre Garibaldi era a Maratea e per mare raggiunse Sapri.  Il 6 settembre, Salerno accolse trionfalmente il dittatore, men­tre Francesco II abbandonava Napoli per chiudersi nella fortezza di Gaeta. L’altro capo­saldo doveva essere Capua, dove confluirono le restanti truppe ritirate dal sud.
Intervento dell’esercito piemontese Napoli rimase in mano di Li­borio Romano che invitò Garibaldi a prendere possesso della cit­tà. La mattina del 7 settembre, Garibaldi partì in carrozza da Salerno e raggiunse Vietri, dove prese il treno arrivando a Napo­li accolto trionfalmente. Cavour fece avanzare l’esercito rego­lare fino al Volturno, per impedire a Garibaldi di proseguire ol­tre, e per fornire al dittatore l’artiglieria di cui aveva biso­gno per assediare le fortezze napoletane. Il Cavour ebbe l’as­senso di Napoleone III che desiderava veder tornare la guerra nelle mani dei soldati di professione. La campagna nelle Marche e in Umbria durò in tutto 18 giorni. Le forze dello Stato della Chie­sa erano molto inferiori.  Il 18 settembre vi fu uno scontro a Castelfidardo, vinto dai piemontesi. Subito dopo venne occupata Ancona e poi l’Umbria. 
Scontro politico tra Cavour e Garibaldi Il prestigio dell’eser­cito regio offuscò l’impresa dei garibaldini: tutti com­presero che si avvicinava il giorno in cui Garibaldi doveva de­porre la dittatura e il comando delle operazioni militari. Il 26 settembre Vittorio Emanuele II partì per Ancona, assumendo il comando delle truppe. I borbonici scatenarono la loro attesa controffensiva solo il 1° ottobre, ma l’attacco in direzione di Caserta fallì. A Francesco II non rimase altro che rinchiu­dersi nelle fortezze di Capua e di Gaeta, sperando in una ribel­lione generale. Garibaldi aveva vinto la più difficile delle sue battaglie, ma stava perdendo la battaglia politica.  Il Cavour, infatti era deciso a chiudere l’età delle rivoluzioni: il sud do­veva entrare a far parte del regno di Sardegna col sistema del plebiscito, senza patteggiare alcuna condizione. I plebisciti si tennero il 21 ottobre: sul continente, su 1.312.366 votanti i vo­ti favorevoli furono 1.302.064; in Sicilia, su 432.720 votanti, i voti contrari furono solo 667, davvero pochi.
L’incontro di Teano Il 26 ottobre, i garibaldini si incontrarono con l’esercito regio proveniente  dalle Marche, a Teano. Il 1° novembre l’artiglieria piemontese bombardò Capua e il giorno dopo i borbonici si arresero. Il 5 novembre cominciò l’assedio di Gae­ta, durato alcuni mesi. Il 9 novembre Garibaldi partì per Caprera affermando che nel marzo 1861 avrebbe ripreso la lotta per libe­rare Roma e Venezia.  Il 4 novembre, nelle Marche e nell’Umbria fu celebrato il plebiscito che determinò l’ingresso nel regno di Sardegna anche di quelle due regioni.

19. 5  La proclamazione del regno d’Italia
     In quel magico anno gli avvenimenti si erano susseguiti a ritmo incalzante, conducendo alla riunificazione di gran parte della penisola italiana. La sanzione finale offerta dai plebisci­ti era precaria, perché non offriva garanzia che il futuro sarebbe stato migliore dell’epoca appena chiusa.
La legislazione piemontese estesa all’Italia In tutto il sud fu abrogato il diritto consuetudinario a favore del codice di diritto civile piemontese. Inoltre, il trattamento ri­servato ai garibaldini non fu magnanimo: l’intervento dell’eser­cito regio nel sud fu giustificato davanti all’opinione pub­blica internazionale con la necessità di impedire a Garibaldi di attuare altri colpi di mano. I cattolici erano costernati dalla prospettiva della guerra mossa dal Cavour al Pontefice e dalla certezza che le leggi anticlericali, già applicate in Piemonte, sarebbero state estese al resto d’Italia. I contadini che aveva­no favorito nella prima parte della guerra la caduta del regime borbonico, si accorsero che i vantaggi del nuovo regime andavano a quelle categorie borghesi che ora si apprestavano a godere i frutti della vittoria.  Tutti, infine, si accorsero che la tassazione era più esosa delle tassazioni esistenti prima dell’arrivo dei liberatori, e alcuni cominciarono a rimpiangere l’antica situazione. Il governo cerca­va di  spiegare che tutti gli italiani dovevano contribuire a risanare il deficit di bilancio, ma chi era in grado di pensare si rendeva conto che i benefici delle spese effettuate per le opere pubbliche rimanevano in Piemonte. Poiché non fu previsto alcun gradualismo nell’integrazione delle varie regioni italiane, avvenne che un nord relativamente avanzato si trovò ad espandere il mercato dei propri prodotti in un sud arretrato i cui prodotti non erano difesi da dazi protettivi.
La proclamazione del regno d’Italia Il 17 marzo 1861, a Torino si riunì il nuovo Parlamento i cui membri erano stati eletti in tutta la penisola.  Fra gli eletti c’era anche Garibaldi che non mancò di protestare violentemente contro il Cavour e contro la sua decisione di sciogliere i corpi di volontari. Nel corso della solenne sessione, Roma fu proclamata capitale d’Italia, anche se non si vedeva come si sarebbe arrivati a quel risultato. Pochi mesi dopo, a giugno il Cavour si ammalò e dopo una settimana morì. Al frate che gli ammi­nistrò i sacramenti, sembra che il Cavour abbia detto: “Ricordati frate, libera Chiesa in libero Stato”, ma forse neppu­re il Cavour, con la sua innegabile genialità politica, avrebbe potuto risolvere quel difficile problema.

19. 6  Cronologia essenziale
1848 Il Cavour è eletto al parlamento subalpino nel corso delle elezioni suppletive di giugno.
1850 Il Cavour è nominato ministro dell’agricoltura. Promuove una nuova maggioranza con la sinistra di Rattazzi.
1852 A novembre il Cavour è nominato primo ministro
1854 Allo scoppio della guerra di Crimea, il Piemonte si schiera con Gran Bretagna e Francia contro la Russia.
1855 Il parlamento piemontese approva la legge che sopprime nume­rosi enti ecclesiastici confiscandone i beni.
1856 Al termine dei lavori del congresso di Parigi, il Cavour ha la possibilità di presentare la situazione italiana.
1857 Fallisce il tentativo di invasione del regno delle Due Sici­lie condotto da Carlo Pisacane.
1858 A Plombières avviene l’incontro segreto tra Cavour e Napo­leone III per concordare l’intervento francese nella guerra contro l’Austria.
1859 Il 26 aprile inizia la seconda guerra d’indipendenza.
1859 La vittoria francese a Magenta apre la possibilità di occu­pare Milano.  Il 24 giugno avvengono le battaglie di Solferino e San Martino.
1860 Garibaldi sbarca a Marsala e vince una serie di battaglie che gli permettono di occupare la Sici­lia. Cavour fa intervenire l’esercito piemontese per parare una possibile mossa del Mazzini contro Roma.
1861 A marzo avviene l’inaugurazione del Parlamento italiano con Cavour primo ministro. Roma è proclamata capitale d’Italia.

19. 7  Il documento storico
     In altri tempi, quando la diplomazia sostituiva l’opinione pubblica, i discorsi parlamentari venivano attentamente letti e analizzati alla ricerca delle intenzioni nascoste dei responsabi­li della politica. Il documento che segue riporta il discorso della Corona pronunciato da Vittorio Emanuele II il 10 gennaio 1859. Tale discorso fu collegato dai diplomatici con l’inci­dente del 1° gennaio in cui Napoleone III, rivolgendosi all’amba­sciatore austriaco Hübner, disse: “Mi dispiace che i nostri rap­porti non siano più così buoni come sarebbe desiderabile; ma vi prego di riferire a Vienna che i miei sentimenti personali verso l’Imperatore son sempre gli stessi”. Gli osservatori più acuti ritennero che la guerra era vicina.

     “Signori Senatori, Signori deputati, la nuova legislatura, inaugurata or fa un anno, non ha fallito alle speranze del Paese, alla Mia aspettazione. Mediante il suo illuminato e leale concor­so, Noi abbiamo superato le difficoltà della politica estera ed interna, rendendo così più saldi quei larghi princípi di naziona­lità e di progresso, sui quali riposano le nostre libere istitu­zioni.
     Proseguendo sulla medesima via, porterete quest’anno nuovi miglioramenti ai varii rami della Legislazione e della pubblica Amministrazione.
     Nella scorsa sessione vi furono presentati vari progetti in­torno all’Amministrazione della giustizia. Riprendendone l’inter­rotto esame, confido che in questa verrà provveduto al riordina­mento della Magistratura, all’istituzione della Corte d’Assise ed alla revisione del Codice di Procedura.
     Sarete di nuovo chiamati a deliberare intorno alle riforme dell’Amministrazione dei Comuni e delle Province. Il vivissimo desiderio che essa desta vi sarà d’incitamento a dedicarvi le speciali vostre cure.
     Vi saranno proposte alcune modificazioni alla legge sulla Guardia Nazionale, onde, serbate intatte le basi di questa nobile istituzione, sieno introdotte in essa quei miglioramenti dall’e­sperienza suggeriti, atti a rendere la sua azione più efficace in tutti i tempi.
     La crisi commerciale, dalla quale il nostro paese non andò immune e la fatale calamità che ripetutamente colpì la prima del­le nostre industrie, ci tolsero di realizzare intieramente le speranze concepite. Ciò non vi impedirà di conciliare, nell’esame del bilancio del 1860, le esigenze del pubblico servizio coi principii della più severa economia.
     Signori Senatori, Signori Deputati, l’orizzonte in mezzo a cui sorge il nuovo anno non è pienamente sereno, non di meno vi accingerete con la consueta alacrità ai vostri lavori parlamenta­ri.
     Quest’avvenire sarà felice, la nostra politica riposando sulla giustizia, l’amore della libertà e della patria. Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei consigli d’Europa perché grande per le idee che rappresenta, le simpatie che esso ispira. Questa condizione non è scevra di pericoli. Giacché nel mentre che rispettiamo i trattati, non siamo insensi­bili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi.
     Forti per la concordia, fidenti nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della Divina Provvidenza”.

Fonte: E. ANCHIERI, Antologia storico-diplomatica, I.S.P.I., Mi­lano 1941, pp. 109-110.

19. 8 In biblioteca
     Ottima la biografia del Cavour scritta da R. ROMEO, Vita di Cavour, Laterza, Bari 1984; si consulti sempre del ROMEO, Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale, Laterza, Bari 1974. 
Un classico è il libro di F. VALSECCHI, L’unificazione italiana e la politica europea, I.S.P.I., Milano 1939. Si consulti di P. GUI­CHONNET, Cavour agronomo e uomo di affari, Feltrinelli, Milano 1961.
Molto noti i libri di D. MACK SMITH, Il Risorgimento ita­liano. Storia e testi, Laterza, Bari 1968, e Garibaldi e Cavour nel 1860, Einaudi, Torino 1958. 
Veramente nuove le prospettive suggerite da A. PELLICCIARI, Risorgimento da riscrivere, ARES, Milano 1998; e di L. RIALL, Il Risorgimento, Donzelli, Roma 1997. 
Per la sto­ria dei vinti si legga di H. ACTON, Gli ultimi Borboni di Napoli (1825-1861), Martello, Milano 1962. 
Per la figura di Garibaldi notevole la biografia di M. MILANI, Giuseppe Garibaldi, Mursia, Milano 1962. A. SCIROCCO, La formazione dello Stato unitario, il Mulino, Bologna 1989. A. CARACCIOLO, Problemi dell’unificazione italiana, Einaudi, Torino 1968.