Vita di San Romualdo 5/7

30. Ottone III fa costruire il monastero del Peréo.


Questo capitolo ci porta indietro e cioè all’autunno del 1001 (vedi la nota cronologica al cap. 26). Con la costruzione del monastero di S. Adalberto accanto all’eremo del Peréo si tenta di realizzare un progetto monastico completo in cui, all’interno della stessa vocazione monacale, si esprime una grazia multiforme dello Spirito. Sebbene S. Bruno Bonifacio ci informi che l’idea di aggiungere il monastero e la missione all’eremo era partita non da Romualdo ma da Ottone, lo schema pluralistico del progetto corrispondeva perfettamente alla visione monastica di Romualdo. (cf. Vita dei cinque fratelli, cap. 4).

Sempre nel periodo in cui Romualdo risiedeva al Peréo, per suo suggerimento, l’imperatore Ottone vi costruì un monastero in onore di Sant’Adalberto. Gli assegnò alcuni fondi contigui appartenenti al cenobio di Classe, che in cambio ne ricevette altri dal fisco regio nel territorio di Fermo. Nominato abate un discepolo di Romualdo e radunatisi là dei fratelli, Romualdo esercitava su di loro grande sorveglianza e insegnava loro a vivere secondo la disciplina della regola. E all’abate prescrisse di ritirarsi nell’eremo e di vivere nella sua cella durante la settimana, mentre la domenica si sarebbe recato al monastero a visitare i fratelli.


Costui, però, disprezzando il comando del santo, si mise a vivere alla maniera dei secolari e, una volta uscito di carreggiata, prese ad allontanarsi sempre di più dal sentiero della rettitudine. Romualdo, allora, rendendosi conto che là non gli sarebbe stato possibile lavorare secondo l’ardore della sua volontà, si presentò subito al re. Reclamando quanto gli aveva promesso, insistette vivacemente che il re si facesse monaco. Costui assicurò che avrebbe compiuto ciò che gli veniva richiesto; prima, doveva portarsi a Roma, dove era in corso una ribellione, e, dopo aver riportato vittoria, avrebbe fatto ritorno a Ravenna. Romualdo gli disse: «Se andrai a Roma, tu non vedrai mai più Ravenna». Gli preannunziava così, senza reticenze l’imminenza della sua morte. Non riuscì, però, a trattenerlo e allora, senza nutrire nessun dubbio sulla fine che avrebbe fatto, durante il viaggio del re alla volta di Roma, Romualdo salì su una nave e raggiunse per mare la città di Parenzo.


Conforme alla profezia, il re, non appena ebbe intrapreso il ritorno da Roma, si ammalò improvvisamente e morì vicino a Paterno.


 


31. Romualdo riceve la perfetta compunzione del cuore e l’intelligenza delle scritture.


Parenzo è l’attuale Porec in Croazia. Siamo nel 1001.


 Attraverso la salmodia Romualdo raggiunge la perfetta compunzione del cuore e l’intelligenza delle Sacre Scritture. Con questo capitolo – forse il più bello e quello teologicamente più significativo di tutto il libro – si confronti la «Piccola Regola di S. Romualdo» nella Vita dei cinque fratelli, cap. 19.







 


Romualdo abitò nel territorio di Parenzo per tre anni, uno dei quali dedicato alla costruzione di un monastero e due alla vita di recluso. Fu appunto qui che la grazia divina lo innalzò al culmine della perfezione, tanto che, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, poté prevedere alcuni eventi futuri e penetrare con intelligenza molti misteri nascosti del vecchio e del nuovo Testamento.


 Mentre stava a Parenzo a volte era angosciato dal desiderio di erompere in lacrime, tuttavia, per quanto si sforzasse, non era capace di pervenire alla compunzione di un cuore contrito. Un giorno, mentre stava in cella a salmodiare, si imbatté in questo versetto: «Ti farò saggio, t’indicherò la via da seguire; con gli occhi su di te, ti darò consiglio» (Sal 31, 8).


 Gli sopraggiunse improvvisamente una così larga effusione di lacrime, e la sua mente fu talmente illuminata nella comprensione delle scritture divine, che da quel giorno in poi, finché visse, ogni volta che lo voleva, poteva versare con facilità lacrime abbondanti e il senso spirituale delle scritture non gli era più nascosto.


 Sovente, rimaneva così rapito nella contemplazione di Dio che si scioglieva quasi interamente in lacrime e bruciando di fervore indicibile per l’amore divino, usciva in esclamazioni come queste: «Caro Gesù, caro! Mio dolce miele, desiderio inesprimibile, dolcezza dei santi, soavità degli angeli!» Parole che, sotto il dettato dello Spirito Santo, gli si tramutavano in canti di giubilo e che noi non sapremmo rendere compiutamente mediante concetti umani. Era come dice l’Apostolo: «Noi non sappiamo neppure come dobbiamo pregare, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili» (Rm 8, 26).


 E se Romualdo non voleva celebrare la Messa alla presenza di molte persone, era a motivo delle sue troppe lacrime, che egli non riusciva a trattenere. Per lo stesso motivo, in seguito, quando ormai questo fatto gli era diventato abituale, credendo, nella sua semplicità di animo, che Dio concedesse a tutti quella stessa grazia, ripeteva spesso ai discepoli: «State attenti a non effondere troppe lacrime, perché sciupano la vista e danneggiano il cervello».


 Il santo, poi, dovunque si disponesse ad abitare, prima di tutto costruiva nella cella una cappella con altare, quindi vi si rinchiudeva vietando l’accesso.


 


32. Romualdo prevede l’arrivo di fratelli da lontano.


Sempre a Parenzo, Romualdo conosce in spirito l’arrivo di monaci dell’eremo di Biforco in Romagna. Ora il luogo si chiama S. Benedetto in Alpe; è vicino alla confluenza dell’Acquacheta con il Rio Destro, che unendosi formano il fiume Montone che bagna Forlì.



 


I fratelli che abitavano nel luogo solitario chiamato Biforco una volta gli mandarono a chiedere consiglio su come impostare la vita dell’eremo e come poter resistere agli assalti diabolici. Quando gli inviati giunsero al monastero, sebbene la cella di Romualdo fosse a una buona distanza, immediatamente l’uomo di Dio conobbe in spirito il loro arrivo e dette all’abate Ausone, che si trovava presso di lui, questo comando: «Va’ a preparare una pietanza per i fratelli che sono arrivati da lontano».


 Quello si mise subito a prenderlo in giro, a dirgli che era senz’altro un falso profeta. Alla fine, però, più o meno costretto, venne al monastero e, nella chiesa, trovò raccolti in preghiera gli uomini di cui aveva parlato il santo. E Romualdo somministrò loro in abbondanza il sale della dottrina della salvezza e li armò di molte virtù contro gli agguati del nemico antico. Dopo averli ammaestrati accuratamente su ogni cosa, li rimandò al loro eremo pieni di entusiasmo.


 


 


33. Navigando verso l’Italia, Romualdo allontana una tempesta con la preghiera.


Dietro invito degli eremiti di Biforco, Romualdo lascia Parenzo circa l’anno 1005. Con lui è il monaco Ingelberto, di cui ai capitoli 41, 56, 57.



 


I fratelli ora menzionati gli mandarono dei messaggeri una seconda volta per consultarlo con accresciuta ansietà sui medesimi argomenti. L’uomo di Dio disse loro: «Io sto appunto scrivendo un libretto sul combattimento contro i demoni. Quando tornerete indietro ve lo consegnerò. Anzi, forse verrò con voi anche io».


Sentendo queste parole, quelli gli si prostrarono davanti e lo supplicarono fino all’importunità di degnarsi di andare con loro. Il giorno dopo, egli assicurò che sarebbe senz’altro partito con loro e diede ordine di cercare una nave.


A questa notizia, il vescovo di Parenzo rimase addoloratissimo. Essendosi incontrato con i monaci mentre questi si stavano interessando dell’imbarcazione, li coprì di ingiurie e di rimproveri. E, in più, promulgò un editto all’indirizzo di tutti gli abitanti del porto con cui vietava il rientro in Parenzo a chiunque avesse osato fornire una nave a Romualdo, emigrando così, insieme a lui, per un viaggio senza ritorno.


Allora, fu mandato sollecitamente un messaggero al vescovo di Pola perché non indugiasse a inviare al beato un’imbarcazione. Questo vescovo, infatti lo aveva esortato spesso a non restare definitivamente recluso in quell’oscuro recesso e a portarsi invece a Pola. Qui avrebbe avuto la possibilità di guadagnare un maggior numero di anime. Anziché ardere soltanto per se stesso come un carbone, avrebbe invece potuto diffondere i suoi raggi su tutti coloro che stanno nella casa di Dio, come una lucerna quando è posta sopra il lucerniere (cf. Mt 5,15).


Intanto, mentre c’era attesa per il ritorno del messaggero, Romualdo disse ai fratelli che erano con lui: «Sappiate senza dubbio che quel fratello arriverà troppo tardi e ci conviene partircene con un’altra nave, prima del suo ritorno».


Venuto il santo giorno della domenica, al primo albeggiare così egli disse a Ingelberto, un fratello che gli stava accanto e che più tardi sarebbe diventato arcivescovo missionario: «Guarda lontano nel mare. Vedrai due navi, ancora molto distanti dirigersi verso di noi alla stessa velocità. Una di quelle, appunto, ci imbarcherà».


L’altro, allora, incuriosito, si mise a scrutare attentamente aguzzando la vista in ogni direzione, ma non riuscì a scorgere nessun segno di navigazione. Poi, quando il giorno si andava ormai rischiarando vide all’orizzonte le due navi venute da lontano, ma per l’eccessiva distanza parevano quasi due uccelli. Quando esse furono entrate nel porto, fu chiesto ai naviganti se volevano far salire sulla loro nave Romualdo con i suoi. Subito pieni di inaspettata letizia, essi gli misero a disposizione se stessi e tutto ciò che avevano e si dichiararono felici di avere come carico una perla tanto preziosa.


Per quel giorno, però non vollero partire, intimoriti da un cielo minaccioso. Romualdo li esortò lo stesso a sperare nella grazia divina e a intraprendere subito il viaggio, garantendo che non avrebbero corso alcun rischio. Ma, per tutta la giornata, essi rimasero lì e solo quando fu notte cominciarono a navigare.


Verso l’alba improvvisamente si scatenò il vento, scoppiò una tempesta e il mare diventò profondamente agitato. Ben presto le onde tempestose cominciarono a riversarsi da ogni parte sui marinai, a scuotere la nave da tutti i lati e a sconquassarne quasi tutte le assi. Si vedevano alcuni uomini spogliarsi e gettarsi a nuoto, altri attaccarsi al timone, altri tenere stretti i remi o altri legni per poter rimanere a galla. Il pericolo era così grave da non lasciar dubbi sull’imminenza di un naufragio. Ma Romualdo fece ricorso alla sua consueta difesa; ossia alla preghiera. Abbassato un po’ il cappuccio, chinò il capo sul grembo e in silenzio rivolse a Dio la sua preghiera. Poi, con fare sicuro ingiunse all’abate Ausone, che gli stava di fronte: «Annuncia ai marinai di non aver più paura. Stiano pur certi, senza pericolo di smentita, di uscirne sani e salvi».


Passò ancora qualche istante ed ecco, contro le aspettative di tutti e senza intervento d’uomo, la nave si diresse da se stessa ed entrò spedita e veloce nel porto di Caorle. Tutti allora resero grazie a Dio liberatore e riconobbero apertamente di essere stati strappati alla morte per i meriti di Romualdo.


 


 


34. Romualdo cerca di correggere gli eremiti di Biforco.


Una lezione importante: l’eremo per S. Romualdo non significa tanto lo stare soli (solitudine = privacy) quanto il vivere nella più completa semplicità e umiltà, per darsi alla preghiera del cuore. Romualdo tenta di far osservare dagli eremiti di Biforco le norme fondamentali della vita benedettina; non ci riesce, malgrado l’amicizia che lo lega ai fratelli e al luogo.



 


Quando Romualdo venne a Biforco, osservò le celle di tutti i fratelli e, poiché per certe superfluità gli apparivano sontuose, non volle essere ospitato in nessun’altra che in quella in cui abitava il suo amato discepolo Pietro. Quest’uomo, veramente ammirevole per la sua astinenza e per la sua grande elevatezza, a imitazione di S. Ilarione non permetteva quasi mai che gli si costruisse una cella larga più di quattro cubiti.


 Pietro riferiva più tardi che Romualdo, nel periodo in cui abitò da lui e cantava alternandoli con lui i versetti dei Salmi, durante la notte fingeva di andare tre o più volte per i suoi bisogni naturali, mentre la vera ragione era che, per l’abbondanza delle lacrime, non riusciva a trattenere i singhiozzi.


 Romualdo si fermò a Biforco per un certo periodo. Ammaestrava i fratelli non solo sul combattimento spirituale, ma anche a sottomettersi a un abate e ad avere ogni cosa in comune. Ma essi non si curarono granché di accogliere l’insegnamento di Romualdo, poiché ciascuno di loro aveva chi lo manteneva e agiva liberamente secondo il proprio arbitrio.




 


35. A Val di Castro Romualdo porta molto frutto per il regno di Dio.


Un capitolo che introduce e riassume la fase più «apostolica» della vita di Romualdo.


Egli è sterilitatis impatiens—«non si rassegna a vivere nella sterilità». Un eremitismo fine a se stesso, ridotto allo stare soli e basta, è radicalmente incompatibile con il Vangelo. Nella Chiesa, tempio dello Spirito, c’è una grande varietà di carismi: una persona gode del dono della preghiera, un’altra di quello della predicazione, un‘altra ancora del privilegio di servire i poveri, eccetera. Ma tutti possono e devono portare frutto per la salvezza del mondo. Altri capitoli della VR (37, 43, 52) parlano di Romualdo predicatore e del seguito ottenuto tra la gente.


La fondazione di Val di Castro, presso Poggio S. Romualdo, a nord del Monte S. Vicino tra Fabriano e Cingoli, risale probabilmente all’autunno del 1005. Si noti la fondazione di un monastero femminile nella stessa zona (per la fondazione di un altro, vedi il cap. 63). Nella storia della famiglia benedettina camaldolese le monache hanno avuto una parte notevole: in passato un certo numero di monasteri camaldolesi erano doppi, con monache e monaci, a volte retti da una badessa, o alternativamente dalla badessa e dal priore. Attualmente la famiglia camaldolese consta di un numero pressoché uguale di monache e monaci.



 


Romualdo, non rassegnandosi a vivere nella sterilità e ansioso di fare il bene, partì in cerca di una terra che gli consentisse di portare frutto di anime. Mandò dei messaggeri ai conti di Camerino e questi all’udire il nome di Romualdo, furono così pieni di gioia che gli offrirono possedimenti di loro proprietà: boschi, montagne, o addirittura terreni coltivati, se era di suo gradimento. Fu trovato, infine, tra i loro possedimenti, un luogo particolarmente idoneo per condurvi vita eremitica, circondato da montagne e da boschi. In mezzo c’era una vasta pianura adatta ai cereali e per di più bagnata da limpide sorgenti. La località aveva, dall’antichità, il nome di Val di Castro. Vi era già una chiesetta, presso la quale un tempo era esistito un convento femminile. Non appena i conti gli ebbero concesso il luogo, l’uomo di Dio vi fece costruire delle celle e cominciò ad abitarvi insieme ai suoi discepoli.


Come descrivere, con l’inchiostro o con la voce, i tanti frutti di anime che a Val di Castro il Signore si acquistò per mezzo di Romualdo? Cominciarono ad affluire uomini da ogni dove al richiamo della penitenza, a donare misericordiosamente i loro beni ai poveri, ad abbandonare completamente il mondo, a professare con fervore la vita monastica. E il beato era come uno dei serafini: ardeva in se stesso di amore divino oltre ogni paragone e, dovunque si recasse, ne accendeva gli altri mediante le torce della sua santa predicazione.


Spesso, mentre predicava, la compunzione lo muoveva talmente alle lacrime che doveva improvvisamente lasciare interrotto il discorso e scapparsene come un pazzo da qualche altra parte. E quando andava, con i fratelli, a cavallo, restandosene alquanto indietro a salmodiare di continuo, non cessava mai di versare lacrime. Ugualmente quando era nella cella.


Riprendeva con la più dura severità specialmente i chierici secolari che avevano ottenuto l’ordinazione per denaro. Affermava che, se non avessero abbandonato spontaneamente il loro grado, sarebbero stati senz’altro degni di dannazione ed eretici. All’udire queste novità, quelli macchinarono di ucciderlo. Fino all’epoca di Romualdo, infatti, in tutto quello stato uno a stento poteva rendersi conto che l’eresia simoniaca fosse peccato, talmente ne era invalsa l’abitudine. Romualdo disse loro: «Portatemi dei libri contenenti i canoni, così lo vedrete dalle stesse vostre pagine se è vero ciò che vi dico». E dopo un diligente controllo, essi riconobbero la loro colpa e la piansero. Allora il santo organizzò diverse canoniche e insegnò ai chierici di vita secolare a obbedire a dei superiori e a vivere in comunità.


Da lui correvano per far penitenza anche alcuni vescovi, che avevano invaso le sedi episcopali mediante la simonia. Si affidavano all’uomo di Dio e gli promettevano di fissare una scadenza per lasciare l’episcopato e darsi alla santa vita monastica. Ma dubito che il santo, in tutta la sua vita, abbia mai potuto convertirne uno. Quell’eresia velenosa infatti, specialmente quando si tratta dell’ordine episcopale, è talmente dura e resistente alla conversione che, tra un continuo promettere, un tergiversare di giorno in giorno e un rimandare al domani, alla fine è più facile convertire alla fede un giudeo che muovere a penitenza completa uno di quegli usurpatori eretici.


Nella stessa zona, inoltre, il santo fondò anche un monastero femminile.


 


36. Un ladro forza la cella di un monaco, ma Romualdo lo rimanda libero.


Con questo capitolo ha inizio una serie di fioretti romualdini che si ispirano alle fonti monastiche tradizionali (la vita di S. Benedetto narrata nel II libro dei Dialoghi di Gregorio Magno, gli Apoftegmata Patrum ecc.). Pochi di questi episodi sono databili o localizzabili; si svolgono, però, fra due date certe: l’udienza papale della primavera del 1010 in cui Romualdo chiede a Sergio IV il permesso per sé e per i suoi discepoli di partire missionari per l’Ungheria; e l’incontro con l’imperatore Enrico II, avvenuto a Lucca il mercoledì 25 luglio 1022 (cap. 63). Qui è nominato il monaco Gregorio, di cui ai capitoli 53 e 55.


Nel cap. 36 Romualdo manifesta di nuovo quello che oggi chiamiamo «l’opzione preferenziale per i poveri»: conoscendo le condizioni di miseria che spingevano la povera gente a rubare, Romualdo non poteva fare altro che dare da mangiare al ladro, alfine di stabilire con lui un rapporto di fiducia. Allora, in base a tale rapporto, avrebbe potuto anche ammonirlo «con dolci parole».


 


In un giorno di festa l’uomo di Dio sedeva in capitolo con i fratelli e li cibava di dottrina della salvezza. Ad un tratto interruppe il discorso e, con viva preoccupazione, si mise ad esclamare: «Presto, presto, accorrete subito, sta fracassando la cella di fratello Gregorio!». Questo Gregorio in seguito fu consacrato arcivescovo missionario.


Accorsi rapidamente alla cella, essi vi trovarono un ladro che stava facendo a pezzi le pareti. Lo presero e lo trascinarono dal loro maestro e gli chiesero che cosa si doveva fare di un rapinatore colpevole di un sacrilegio così grave. Il santo prese a dire divertito: «Fratelli, non lo so neanch’io che cosa potremmo fare a un uomo così malvagio. Cavargli gli occhi? ma poi non ci vedrebbe. Tagliargli una mano? Così non potrebbe più lavorare e forse morirebbe di fame. Mozzargli un piede? non potrebbe più camminare. Portatelo dentro e, per cominciare, mettetegli davanti da mangiare, così, nel frattempo, noi discuteremo che cosa fargli».


Allora il santo esultò nel Signore. E dopo aver nutrito il ladro, lo riprese con moderazione, lo ammonì con dolcezza e gli permise di tornarsene a casa in pace.


 


 


37. Romualdo edifica un monastero a Orvieto.


A Orvieto, come a Sitria (cap. 52), Romualdo cerca di «associare tutto il popolo all’ordine monastico». I monaci, per Romualdo, non devono considerarsi come un’élite, un corpo separato, bensì come il lievito nella massa dei fedeli.


 


Da ultimo lasciò in Val di Castro alcuni suoi discepoli e si recò nella regione di Orvieto. Qui fece costruire un monastero in un possedimento del conte Farolfo, che ne sostenne anche le maggiori spese, sebbene vi fossero molti altri contributi.


Nel cuore del santo l’ardore di portare frutti era così forte che non si sentiva mai contento di quanto realizzava. E mentre ancora svolgeva un’attività, già si teneva pronto per un’altra. Si sarebbe detto, insomma, che avesse l’intenzione di convertire il mondo intero in un eremo e associare tutto il popolo all’ordine monastico. Anche in questo luogo egli sottrasse al mondo molti uomini, che poi distribuì in diverse comunità.


 


 


38. Un giovane discepolo di Romualdo, dopo la morte dà la vista a un cieco.


La tradizione agiografica umbra parla di un «S. Guidino», figlio di Farolfo conte di Orvieto, di cui nel capitolo precedente.


 


Anche alcuni figli di nobili, lasciati i genitori, andavano a rifugiarsi presso l’uomo di Dio. Fu tra questi il figlio del conte Guido, che si fece monaco ancora ragazzo. Non molto tempo dopo si avvicinò per lui il momento della morte. E allora vide due spiriti malvagi, simili ad avvoltoi nerissimi, che lo fissavano con occhi terrificanti. Il ragazzo riferì la cosa a Romualdo, che lo stava assistendo, e subito dopo aggiunse: «Ecco, maestro, adesso stanno entrando tanti demoni in forma umana da riempire tutta la stanza».


Romualdo lo esortò: «Se tu hai commesso qualche mancanza, è ora di confessarla». Fortunato peccatore, egli confessò con grande apprensione questa sola colpa: «Il priore mi ha ordinato di sottopormi ad alcuni colpi di verga, e non li ho ancora ricevuti». Così, ebbe da Romualdo il perdono del suo «delitto» e morì nella pace.


Il giorno dopo, venne alla sua tomba un cieco, che viveva della beneficenza di suo padre, e gridò a voce alta: «Ah, padrone mio, se, come credo, tu sei con Dio, pregalo per me e restituiscimi la luce degli occhi». Appena dette queste parole, ebbe la luce.


Anche altri ammalati vennero alla sua tomba e ottennero la guarigione. In questo modo meritò di essere onorato da Dio dopo la morte chi, per suo amore, aveva disprezzato in vita l’eredità dei genitori terreni.


 


39. Romualdo fonda tre monasteri e parte per l’Ungheria.


Siamo nel 1010.


Il tema del monacato come martirio è una costante nella letteratura monastica antica. Si parla del «martirio di fede» (Vita di Antonio 23) e del «martirio di esilio» (Vita di Ilarione 39); più avanti, al cap. 64, troveremo «il martirio volontario». Lo zelo missionario di Romualdo e dei suoi si ispira al ricordo dell’evangelizzazione della Germania da parte di Bonifacio, di Lioba e di altri santi monaci e monache.


 I due discepoli consacrati arcivescovi sono Ingelberto (cap. 33) e Gregorio (cap. 36). Il fatto che Pier Damiano continua a parlare di loro lascia supporre che entrambi siano tornati insieme a Romualdo, ma è più probabile che, almeno nel caso di Gregorio, il Damiano non segua un ordine cronologico. Che significato può aver avuto la malattia misteriosa di Romualdo, che gli impedì di raggiungere l’Ungheria? Sappiamo che in quegli anni S. Stefano, re dei magiari, avrebbe preferito seguire l’esempio di S. Vladimiro e affidare l’evangelizzazione del suo popolo ai missionari bizantini; però accoglieva volentieri anche quelli provenienti dall’Occidente, che gli offrivano una certa garanzia contro le ingerenze politiche di Enrico, l’imperatore sassone. Stante questa situazione politico-ecclesiastica piuttosto ambigua, Romualdo non si sarebbe sentito di prendere parte in una competizione fra le Chiese d ‘Occidente e d’Oriente.


 Romualdo, dice Bruno Bonifacio, non volle mai essere «abate dei corpi, ma solo delle anime»; per cui egli lasciava ai suoi discepoli la facoltà di scegliere il loro superiore. Purtroppo, Romualdo non rimase quasi mai contento della scelta. Lo troviamo spesso in litigio con gli abati: qui a Orvieto, poi a Classe (cap. 41), a Val di Castro (45), a Sitria (64) e al monastero sul Monte Amiata (65).


 


Quando venne a sapere che [Bruno] Bonifacio aveva ricevuto il martirio, Romualdo si sentì bruciare dal grande desiderio di versare il suo sangue per Cristo e decise, ben presto, di andare in Ungheria. Nel frattempo, però, pur rimanendo fermo in questa sua intenzione, fondò in breve volgere di tempo tre monasteri. Uno è quello di Val di Castro, dove è attualmente riposto il suo corpo santissimo, l’altro presso il fiume Esino e il terzo nelle vicinanze di Ascoli. Più tardi quando ne ebbe ottenuto licenza dalla sede apostolica e due suoi discepoli furono consacrati arcivescovi, insieme a ventiquattro fratelli si mise in viaggio. In tutti lo zelo di morire per Cristo era così ardente che il sant’uomo difficilmente sarebbe potuto partire con pochi compagni.


 Nell’andare, erano giunti ormai nel territorio ungherese, quando improvvisamente Romualdo si ammalò e non poté proseguire. Aveva lunghi periodi di malattia, ma quando si disponeva a tornare indietro, subito si sentiva guarito. Se invece tentava di continuare il viaggio, gli si gonfiava subito tutta la faccia e per il mal di stomaco non riusciva a trattenere il cibo. Allora convocò i fratelli e disse loro: «Capisco che non sia affatto volontà di Dio che io prosegua il viaggio. Non voglio, però, ignorare i vostri desideri e pertanto non chiedo a nessuno di voi di tornare indietro. Certo, anche prima di noi, molte persone hanno tentato con ogni sforzo di raggiungere le vette del martirio, ma avendo la divina provvidenza stabilito diversamente, sono state costrette a rimanere nel loro stato. Ora, sebbene io non dubiti che nessuno di voi subirà il martirio, lascio a ciascuno di decidere se proseguire o tornare con me».


 Quindici di loro andarono in Ungheria, altri due erano già stati congedati per un’altra destinazione, così furono appena sette i discepoli che rimasero con il loro maestro. Alcuni di quelli che proseguirono furono flagellati, venduti e dovettero più volte cambiare padrone. Ma, come aveva predetto il santo, non pervennero al martirio.


 Poi Romualdo convertì vari tedeschi, fra cui uno dell’alta nobiltà, parente del duca Adalberone, che si fece monaco e perseverò in quella santa vita fino alla morte. Quindi ritornò al monastero che aveva fatto costruire nella regione di Orvieto. Si tenga presente che il santo non si era dunque ingannato a vuoto, come se avesse agito alla leggera. Nella sua intenzione egli aveva subito il martirio, mentre nel disegno di Dio era stato inviato a salvare coloro che egli convertì.


 Nel monastero menzionato dovette soffrire molti scandali e persecuzioni. Avrebbe voluto che l’abate, da vero monaco amasse la perfezione, non trattasse affari secolari per bramosia, non spendesse per vanagloria i beni del monastero, che somministrasse ai fratelli il necessario per i loro bisogni. Tutte cose di fronte alle quali quello era invece sprezzante e sordo. Perciò Romualdo, insieme ai suoi discepoli, abbandonò quel luogo e andò ad abitare vicino a Preggio, in una proprietà di Ranieri, il futuro marchese di Toscana.