SAN GIUSEPPE da LEONESSA (1556-1612).

L’apparizione di un suo confratello defunto, che aveva sperimentato quanto fosse tremendo il giudizio di Dio, lo spronò ad una vita di maggiore raccoglimento e penitenza. In lui rifulse una rigorosa astinenza. Stava sovente fino a tre giorni senza mangiare. Digiunava a pane e acqua regolarmente tre giorni la settimana, e fino a dieci giorni di seguito, senza provare svenimenti. Si coricava d’ordinario per terra su qualche asse mal piallata e, dopo il mattutino, restava in chiesa a pregare e a meditare fino al tempo della Messa conventuale. Non dispose mai di un indumento nuovo. Per sé reclamava soltanto quello che i confratelli scartavano.

  Questo grande missionario e
predicatore cappuccino in famiglia si chiamava Eufrasio Desiderio. Nacque a
Leonessa (Rieti) 1’8-1-1556 da modesti genitori, che perse ancora in tenera
età. Ebbe cura di lui lo zio Giovambattista, professore aViterbo, che gli fece
compiere buoni studi.
          A sedici anni avrebbe voluto dargli
moglie, ma il nipote aveva sentito una grande attrattiva per la preghiera e la
penitenza. A liberarlo da quel passo indesiderato fu una febbre violenta, che lo
costrinse a ritornare a respirare l’aria natia. Appena guarì, senza dire nulla
ai parenti, corse a bussare alla porta del convento dei Cappuccini che lo
inviarono (1572) alle Carcerelle, presso Assisi, noviziato della Provincia
Umbra.
         Il santo, con l’abito, assunse il nome
di Fra Giuseppe. I congiunti, furenti, un giorno andarono a parlargli con
l’animo di strapparlo da quell’esilio a viva forza, ma il fervente novizio non
indugiò a gridare aiuto per liberarsi della loro oppressione. Dopo la professione
religiosa egli fu mandato a studiare filosofia e teologia a Viterbo e a
Spoleto. L’apparizione di un suo confratello defunto, che aveva sperimentato
quanto fosse tremendo il giudizio di Dio, lo spronò ad una vita di maggiore
raccoglimento e penitenza. In lui rifulse una rigorosa astinenza. Stava sovente
fino a tre giorni senza mangiare. Digiunava a pane e acqua regolarmente tre
giorni la settimana, e fino a dieci giorni di seguito, senza provare
svenimenti. Quando si nutriva di cibi come gli altri, vi mescolava polveri
amare. “Fratello asino – diceva rivolto al suo corpo – non occorre che ti
nutra come un destriero; bisogna che ti accontenti di essere un povero asino e
di essere trattato come tale”. Per castigarlo maggiormente faceva uso di
un aspro cilicio, della disciplina e di catene di ferro, una delle quali a
Spello (Perugia) gli penetrò talmente nelle carni che si dovette fare uso di
tenaglie per togliergliela. Si coricava d’ordinario per terra su qualche asse
mal piallata e, dopo mattutino, restava in chiesa a pregare e a meditare fino
al tempo della Messa conventuale. Non dispose mai di un indumento nuovo. Per sé
reclamava soltanto quello che i confratelli scartavano.
         Fra Giuseppe fu ordinato sacerdote ad
Amelia (Terni) nel 1580 e destinato al ministero della predicazione. Il suo
sogno però era di andare in missione. Il 1-8-1587 ottenne dai superiori
l’autorizzazione di recarsi a Costantinopoli per assistere i cristiani schiavi
dei Turchi. La piccola nave su cui s’imbarcò un giorno perse la rotta,
sballottata com’era da venti impetuosi. Essendo venuti a mancare i viveri, Fra
Giuseppe tirò fuori dalla sua sporta un pezzo di pane duro, lo benedisse e lo
distribuì al piccolo equipaggio. Il pane del miracolo bastò a scongiurare la
fame di tutti per un mese.
          Il Santo sbarcò in Tracia con il
confratello laico che lo accompagnava, ma non sapendo raggiungere né
Costantinopoli, né il convento in cui era atteso da altri due padri si
raccomandò al Signore il quale gli mandò un fanciullo a prenderlo per mano e
condurlo a destinazione. Appena giunto al convento, il misterioso fanciullo
sparì. Fra Giuseppe cominciò subito a visitare le prigioni in cui si trovavano
rinchiusi i cristiani, a dire per loro la Messa, ad amministrare i sacramenti e
rianimare tutti nella fede. Una sera uscì tardi dalla prigione. Non
raccapezzandosi tra le vie strette della città, si decise a passare la notte in
preghiera sotto una tettoia che serviva a proteggere dei cannoni. Una
sentinella lo scoprì e, credendo che fosse un malfattore, lo percosse tanto
brutalmente da lasciarlo mezzo morto per terra. Il giorno dopo fu messo in
prigione da cui uscì, grazie all’intervento dell’ambasciatore della repubblica
veneta.
          Fra Giuseppe riprese a farsi tutto a
tutti con più zelo, specialmente quando tra i prigionieri e i suoi confratelli
scoppiò la peste. In premio delle sue fatiche Dio, se non gli concesse di
morire martire di carità, gli diede la consolazione di convertire un vescovo
apostata, divenuto pascià. Incoraggiato da questo successo e animato
dall’esempio di San Francesco di Assisi, egli volle tentare di convertire Murad
III, sultano della Turchia, persuaso che il popolo ne avrebbe seguito
facilmente l’esempio.
          Un giorno cercò di penetrare nel
palazzo di lui, chiese di essere ammesso alla sua presenza avendo delle cose
importanti da comunicargli. Fu respinto. Siccome tardava ad allontanarsi dal
posto di guardia, fu percosso, buttato a terra e calpestato. Il Santo, contento
di aver sofferto qualcosa per il nome di Gesù, ritornò alla carica un’altra
volta sul far del mezzogiorno. Avendo trovato la prima e la seconda sentinella
addormentata, s’inoltrò nel palazzo del sultano con la speranza d’incontrarlo,
di parlargli e di convertirlo. Fu invece arrestato da una terza sentinella la
quale, non sapendosi spiegare la presenza di quel pezzente, lo mise in
prigione. Il giudice della corte, subito accorso, sbrigò prontamente la
pendenza condannando Fra Giuseppe alla pena del gancio. Per tre giorni egli
rimase sospeso al patibolo con un uncino conficcato nella mano sinistra e un
altro nel piede destro. Mentre tra indicibili tormenti attendeva, sereno, la
morte, vide apparirgli dinanzi un grazioso fanciullo che lo distaccò dagli
uncini, gli risanò le ferite e gli diede due deliziosi pani e un fiasco di vino
perché si rifocillasse. Prima di scomparire gli ordinò di ritornare in patria,
dove avrebbe fatto maggior bene che tra gli ostinati mussulmani.
          Fra Giuseppe andò a trovare il
vescovo che aveva convertito, e lo persuase a seguirlo in Italia con i suoi
confratelli, espulsi da Costantinopoli (1589). A Roma Sisto V accolse con gioia
il peccatore pentito e il coraggioso missionario, al quale i superiori
affidarono il compito della predicazione nell’Umbria, negli Abruzzi e nella
Sabina. Risiedendo successivamente alle Carcerelle (1589), a Collepepe di
Collazzone (Perugia) nel 1596, ad Amatrice (Rieti) come guardiano del convento
(1598), a Leonessa (1599), a Lugnano in Teverina (Terni) nel 1604, e a
Collepepe come guardiano (1607-1608), egli predicò specialmente l’avvento nella
cattedrale di Assisi nel 1589, la quaresima ad Accumoli (Rieti) nel 1590, a
Cerqueto (Perugia) nel 1596, a Lama presso Città di Castello (Perugia) nel
1598, a Leonessa nel 1600, a Otricoli (Terni) nel 1601, due volte a Borbona
(Rieti) nel 1602 e 1608.
         Con la sua predicazione, piena di
forza e di unione, il Santo ottenne pacificazioni e conversioni. Ad Arquata del
Tronto (Ascoli Piceno) con una sola predica convertì cinquanta briganti. Egli
si recava di villaggio in villaggio, radunava attorno a sé i bambini per
prepararli alla prima comunione, parlava ai contadini fino a quattro, sette,
dieci volte il giorno.
         Nessun ostacolo gl’impediva di
attendere al ministero della parola: non la pioggia, la neve, il pessimo stato
delle strade, neppure la febbre. Nel corso delle sue missioni egli assisteva i
carcerati, i malati, moltissimi dei quali guarì con una semplice benedizione.
Per i poveri fece aprire degli ospizi e per i bisognosi fondò, sul modello dei
Monti di Pietà, dei Monti Frumentari o Monti dell’abbondanza, vere
riserve di grano, orzo e miglio, che furono preziose nelle annate di carestia.
A favore di quanti intervennero alle sue prediche più volte moltiplicò i pani
come Gesù nel deserto.
         A chiusura delle stazioni di quaresima
sovente si vedeva portare in spalla una pesante croce di legno alla sommità di
qualche collina, per piantarvela a ricordo della passione del Signore, di cui
era devotissimo. L’ardente amore di Fra Giuseppe per il prossimo non
gl’impediva di vivere continuamente unito a Dio. Il suo provinciale testimonio
che tutta la vita di lui fu una continua preghiera. Per questo ricevette da Dio
straordinari favori. Una volta fu visto sollevato da terra, mentre pregava, in
una cappella della SS. Vergine, fuori di Leonessa. Gli atti del processo di
canonizzazione ci dicono che egli fece a un gran numero di persone delle
predizioni, che si avverarono alla lettera. Dio gli rivelò pure che sarebbe
morto nel 1612. Quando fu mandato ad Amatrice, appena fuori di Leonessa,
esclamò: “Cara patria, io ti dico addio per l’ultima volta. Non ho più la
speranza di rivederti perché resterò sulla terra ancora per poco tempo”. A
Montereale (L’Aquila) qualche amico lo raggiunse per esortarlo a ritornare a
Leonessa. “L’ubbidienza – rispose egli – ha su di me più diritto che la
mia patria”. E proseguì il viaggio.
         Nel convento di Amatrice, Fra Giuseppe
fu colpito quasi subito da una violenta diarrea, contro la quale tutti gli
sforzi dell’arte medica furono impotenti. Dopo quattro mesi nel suo corpo si
manifestò pure il cancro. Non potendo più dire la Messa, chiese che ogni giorno
gli fosse portata la comunione che ricevette in ginocchio, sulla soglia della
sua cella, stimandosi indegno di ricevere in essa il Signore. Benché le sue
sofferenze aumentassero di giorno in giorno, non aprì la bocca che per lodare
Iddio.
          Il 2-2-1612 i medici decisero di
operarlo. Quando gli comunicarono che doveva lasciarsi legare, egli prese il
crocifisso e mostrandolo ai circostanti, disse: “Non prendetevi questa
pena; ecco il più forte di tutti i legami con i quali possiate tenermi
fermo”. Durante l’operazione non fece che sospirare: “Santa Maria,
vieni in soccorso dei miseri”. L’operazione non gli procurò nessun
sollievo. Morì difatti dolcemente due giorni dopo, 4 febbraio. Nello stesso
istante egli apparve a Lorenzo Piccardi che dormiva in prigione a Napoli e gli
annunciò che entro due giorni sarebbe stato messo in libertà.
         I principali abitanti di Amatrice
fecero pressione perché il corpo di Fra Giuseppe fosse imbalsamato. Quando fu
aperto esso emanò un delizioso odore che meravigliò tutti e nei suoi intestini
fu trovato un liquido simile al latte. Nel corso dell’operazione un medico si
ferì al dito con il bisturi, lo immerse nel sangue del defunto e all’istante fu
guarito. Per impedire che i devoti strappassero capelli, unghie. denti e
persino brandelli di pelle al Santo, furono poste a sua custodia delle guardie
armate. I magistrati di Amatrice avrebbero voluto che fosse seppellito nella
chiesa principale della loro città, consigliarono persino al Guardiano dei
Cappuccini di portare in processione il corpo del loro confratello nella
speranza di riuscire nell’intento, ma appena fu preso in spalla Fra Giuseppe si
alterò nei lineamenti e da tutte le membra emanò un sudore estremamente
abbondante. Al prodigio il popolo invocò la misericordia di Dio.
          Fra Giuseppe fu sepolto nella chiesa
del convento che sorgeva fuori dell’abitato. I grandi miracoli che avvennero
sul suo sepolcro invogliò agli abitanti di Leonessa ad avere tra loro i resti
dell’illustre concittadino. Nel 1639 approfittarono del terremoto che afflisse
Amatrice per inviare colà cinquanta uomini ben armati con il compito di
trafugarne il corpo. A mezzanotte del 18 ottobre, mentre i frati dormivano
accampati nel giardino del convento per il timore di nuove scosse telluriche,
essi ne scalarono le mura e si impossessarono del corpo del Santo. Ancora oggi
è venerato mummificato a Leonessa nel santuario a lui dedicato. Clemente XII lo
beatificò il 19-6-1737 e Benedetto XIV lo canonizzò il 29-6-1746.
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Sac. Guido Pettinati SSP,

I Santi canonizzati del
giorno
, vol. 2, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 93-97.

http://www.edizionisegno.it/