S. FRANCESCO DE GERONIMO (1642-1716)

Questo Santo fu apostolo, profeta, taumaturgo e padre dei poveri. Nacque a  Grottaglie (Taranto) il 17-12-1642.. A ventisette anni chiese di essere ammesso al noviziato della Compagnia di Gesù. Fu quaresimalista apprezzato, missionario; predicatore di innumerevoli corsi di esercizi spirituali; riformatore di monasteri femminili; cultore infaticabile di vocazioni sacerdotali e religiose; direttore spirituale di aristocratici, consigliere di vescovi e prelati.

Questo apostolo, profeta, taumaturgo e padre dei poveri è una gloria di Grottaglie (Taranto), dove nacque il 17-12-1642, primogenito degli undici figli di Gianleonardo, proprietario di campi e di una conceria di pelli. Nell\’infanzia Francesco si mostrò tanto riservato da meritare il soprannome di "angelo", e tanto amante dei poveri da destare preoccupazioni nella madre. Un giorno esaurì in elemosine tutta la provvista di pane. "E adesso cosa vi darò da mangiare?" gridò la mamma appena se ne accorse. Il piccino, con grande rispetto, le rispose; "Guardate nell\’armadio e vedrete se il Signore ci lascerà mancare il necessario oggi!". L\’impaziente genitrice lo aprì e lo trovò colmo di pane fragrante.
A dieci anni Francesco fu posto nel convitto retto da un gruppo di ecclesiastici del paese. Vi rimase fino ai diciassette anni con il compito d\’insegnare il catechismo ai bambini e di tenere la chiesa in ordine. In quel tempo sbocciò nel suo cuore il seme della vocazione al sacerdozio. Vi si preparò con grande impegno nel seminario di Tarante e, quindi, a Napoli dove si era recato per laurearsi in utroque iure. Dopo l\’ordinazione sacerdotale (1666) i Gesuiti del "Collegio dei Nobili" lo invitarono a coadiuvarli nell\’ufficio di istitutore. Per cinque anni Don Francesco guidò negli studi, nelle devozioni e negli svaghi i convittori già grandi con tanta diligenza da meritarsi il titolo di "prefetto santo". Nel richiamare un giorno all\’ubbidienza il figlio di un duca si ricevette sul volto uno schiaffo. Senza scomporsi, il santo gli si inginocchiò davanti, gli chiese perdono come se fosse stato lui il reo, e gli offerse l\’altra guancia.
A ventisette anni il De Geronimo chiese di essere ammesso al noviziato della Compagnia di Gesù, nonostante l\’opposizione del padre. Sempre umile, fervente e mortificato, il santo fu ubbidiente fino all\’inverosimile. Ebbe molto da soffrire perché il suo maestro gli permise di celebrare la Messa soltanto tre volte la settimana, ma Gesù stesso lo consolò dandogli la comunione di sua mano nei giorni in cui gli era interdetta la celebrazione del divino sacrificio.
Dopo il noviziato, P. Francesco fece parte a Lecce, nella casa santificata da S. Bernardino Realino (+1616), della "missione volante salentina". Dal 1671 al 1674 egli profuse i tesori del Vangelo per tutta la Puglia con grandi frutti spirituali. Nel 1675, mentre compiva nel "Collegio massimo" di Napoli il corso teologico, concepì il disegno di recarsi a predicare nell\’estremo oriente. Scrisse quattro lettere di supplica al Proposito Generale, ma questi gli rispose essere volontà di Dio che si dedicasse alle "Indie di Napoli", vicereame spagnuolo fino al 1707.
I napoletani erano stati sempre oggetto delle cure più sollecite da parte dei Gesuiti. Il loro "padre missionario" per giungere all\’infima plebe si serviva di duecento volenterosi artigiani, costituenti la "congregazione della missione" con oratorio proprio. P. Francesco li seppe entusiasmare così con i suoi fervorini e le premure che si prendeva della loro necessità, da trasformarli in validi cooperatori. Lo seguivano dovunque, gli conducevano i peccatori, gli segnalavano i casi più pietosi, e durante le sue missioni agli angoli delle vie, nei quartieri più malfamati o in piazza Castello, vera sentina di vizi, essi mantenevano l\’ordine tra gli uditori. Al dire del santo, la città di Napoli "era un bosco pieno di fiere, cioè di peccatori", ma egli ne convertì molte migliaia con la sua rara eloquenza, la sua voce possente e il dono dei miracoli. Ad uno dei suoi più vecchi congregati era morta la figlia. Trovandosi al verde, costui aveva mandato il figlio alla residenza del santo per supplicarlo di un sussidio.
Quando seppe che P. Francesco si trovava a predicare nella diocesi di Noia, pensò di impegnare alcuni mobili per provvedere al funerale della figlia. Mentre ne dava l\’incarico ad alcuni amici udì bussare alla porta. Era P. Francesco che aveva udito il gemito del suo cooperatore ed era accorso, miracolosamente, a portargli un involto contenente venti ducati e a rassicurarlo che la figlia, sua penitente, si trovava in paradiso.
Per quarant\’anni P. Francesco predicò la missione a Napoli sulla piazza del Castello Nuovo. I suoi congregati uscivano dalla chiesa del Gesù Nuovo in fila ordinata, preceduti da un grande crocifisso e dallo stendardo raffigurante la SS. Vergine nell\’atto di trafiggere il dragone infernale, con la scritta: "Maria nemica del peccato". Li seguiva P. Francesco, fiancheggiato da studenti di teologia e da giovani sacerdoti desiderosi di addestrarsi con lui al ministero sacro. Un gruppo di cantori alternava al canto delle litanie lauretane, l\’inno della congregazione. Al loro passaggio la gente si segnava e si accodava al corteo. Se il santo, lungo il cammino, vedeva degli operai lavorare nelle botteghe, con dolcezza li invitava a seguirlo. Lo stesso faceva con chi, all\’ingresso dei vicoli, si abbandonava con lazzi e moccoli ai soliti giochi plebei. All\’apparire della processione i ladri, gli usurai, i biscazzieri e i saltimbanchi brontolavano tra una maledizione e un\’ingiuria, mentre i congregati si spargevano tra la folla a fare opera di persuasione. P. Francesco distribuiva i giovani missionari, affiancati ciascuno da un gruppetto di congregati, sulle due zone limitrofe della piazza rigurgitante di soldati, barcaioli e scaricatori intenti a bere, a giocare e a bestemmiare, e poi saliva su di un palco, nel centro della piazza, e dava inizio alla missione.
L\’apostolo parlava con gli occhi rivolti al cielo quasi a prendere l\’ispirazione da Dio. Il tono della voce, già forte all\’inizio, si elevava fino a diventare potente quale tuono e terribile come ruggito, mentre il suo corpo, per veemenza di sentimento, era agitato da un fremito irriproducibile. A ragione la gente diceva di lui: "Quando parla è un agnello, quando predica è un leone". Ai primi segni di emozione degli uditori il santo lasciava traboccare dal labbro le fiamme del suo cuore nella perorazione finale, da lui affidata sempre all\’improvvisazione del momento. In essa prevalevano i più teneri accenti dì compassione verso i poveri peccatori. "Io non vado in cerca di anime devote – diceva piangendo – ma delle più perdute e disperate". Alla voce delle lacrime aggiungeva quella del sangue. Si levava difatti di tasca una catena di ferro e si batteva sulla schiena fino a farla rosseggiare. Sulla piazza la gente sospirava, si batteva il petto e invocava pietà e misericordia. Allora il missionario, per allargare i cuori contriti alla confidenza, conchiudeva la predica, come aveva incominciato, con un pensiero sulla Madonna, e invitava tutti a seguirlo in processione al Gesù Nuovo per riconciliarsi con Dio.
Tutti i marinai, i pescatori e gli operai della peggiore risma che accoglievano il suo invito, P. Francesco li conduceva in un oratorio sotterraneo, per una decina di minuti li eccitava al pentimento dei peccati, poi li esortava a dare di piglio ai flagelli di corda apparecchiati attorno all\’altare e a battersi con lui sulle spalle alla recita del Miserere e a lumi spenti. I penitenti risalivano quindi alla chiesa del Gesù Nuovo e si spargevano per i confessionali dove i numerosi padri di "Casa professa" erano pronti ad ascoltarli fino a notte inoltrata. Dal 1678 al 1693 si ha un calcolo di oltre 4.000 "pesci grossi" presi dal santo nella rete di Cristo, ma fino alla sua morte il numero andò crescendo.
Per quarant\’anni, P. Francesco andò pure a predicare nel pomeriggio delle feste fra settimana, allora numerose quasi quanto le domeniche, nei quartieri della prostituzione, con un corteo composto questa volta dai congregati più maturi. All\’apparire del predicatore le infelici vittime della mala vita correvano a rinchiudersi nelle loro tane. Se qualche sfacciata si attardava provocatrice lungo il cammino, il santo la scacciava battendola sulle spalle con la corona del rosario dai grossi grani infilati a robusta minugia. Appena si formava un primo gruppo di uditori, squillava il campanello e il missionario, fiancheggiato dal crocifisso e dal labaro mariano, incominciava a tuonare contro il vizio per farsi sentire anche dalle sciagurate che s\’affacciavano dalle finestre, facevano capolino dall\’uscio di casa o si spingevano fino allo sbocco del loro vicolo infame. Alla fine si flagellava spietatamente per far penitenza dei peccati che si commettevano in quella zona. Coloro che resistevano alle sue infuocate parole, erano vinti a quell\’ultimo commovente spettacolo. Certe sere, nel ritorno alla chiesa del Gesù Nuovo, conduceva con sé fino a quindici meretrici pentite. Per la loro sistemazione nei conservatori e nel monastero delle pentite, spese somme ingenti elargitegli dalla generosità dei buoni.
Una certa Cinzia aveva messo su una scuola di vizio. P. Francesco andava sovente a inveire sotto la finestra di lei, ma invece di convertirsi, l\’ostinata gli mandava dietro giovinastri e leoni a minacciarlo di morte se non la smetteva. Quando morì, il missionario andò a predicare ancora una volta sotto le finestre di lei, poi ne fece gettare il cadavere sul dorso di un asino e l\’accompagnò al cimitero degli impenitenti, lanciando per via ai passanti atterriti le più gravi minacce della giustizia di Dio. Ne seguirono conversioni in massa. Caterina, invece, altra celebre cortigiana, ogni volta che il santo andava a predicare all\’angolo del suo postribolo lo disturbava con beffe, suoni e canti. Una volta il santo andò a bussare alla sua porta pregandola di smettere. Quella meretrice non gli aperse neppure, "Fra otto giorni – esclamò allora lui – te la dovranno scassinare questa porta perché non la potrai più aprire". Una settimana dopo P. Francesco ritornò a predicare al solito posto. Caterina non apparve più alla finestra a schiamazzare. Il santo gridò; "Caterina è morta". La folla penetrò nell\’appartamento di lei dopo aver sfondato la porta. La meschina fu trovata distesa sul letto. Il santo per tre volte le gridò: "Caterina, dove sei?". L\’impenitente gli rispose, animandosi momentaneamente: "Mi trovo all\’inferno!".
Mentre predicava presso il Ponte di Ghiaia, da un palazzo vicino uscì un superbo cocchio con due cortigiane e due cicisbei. P. Francesco fece loro cenno di attendere per non disturbare l\’uditorio. Quegli insolenti non se ne diedero per intero. Allora il santo, rivolto al crocifisso, esclamò ad alta voce: "O Signore, se queste femmine non ti prestano rispetto, ti porteranno rispetto questi cavalli". All\’istante, le due bestie s\’inginocchiarono con ambedue le zampe anteriori, e restarono così per un buon tratto. Il cocchiere cadde di serpa svenuto; una meretrice corse a inginocchiarsi davanti alla croce; il popolo esultò commosso al trionfo di Dio.
Nel pomeriggio dei giorni feriali, P. Francesco usciva di casa insieme con un fratello o un congregato e s\’inoltrava, armato di un campanello e di un piccolo crocifisso alla cintola, nei vicoli, nelle carceri, nelle caserme, nelle galere, nelle casupole e nelle barche in riva al mare per spiegare a tutti i rudimenti della fede, per mettere pace nelle famiglie e fare da moderatore nelle emergenze sociali senza mai fare della politica. Ogni mese, nei nove giorni precedenti la terza domenica, sia che piovesse o che dardeggiasse il sole, a piedi o a dorso di un giumento, egli percorreva tutte le località circostanti Napoli per ammaestrare il popolo nelle chiese, sulle spiagge e nei campi. Certi giorni giungeva a fare fino a quaranta brevi prediche. Il popolo rispondeva ai suoi inviti. La terza domenica di ogni mese infatti una massa imponente di 12-14.000 persone, dai trentasei "casali" che circondavano il "distretto" di Napoli, saliva a ondate successive, dall\’alba al mezzogiorno, al Gesù Nuovo per fare la comunione. I disciplinati, uomini e donne, con una corona di spine in fronte e un flagello nella destra, si battevano a sangue mentre, tra il pianto universale, P. Francesco disponeva i vari gruppi all\’incontro con il Signore, Sei giorni dopo la sua morte le comunioni raggiunsero la cifra di 42.000.
Tanta operosità non bastò ancora al cuore dell\’apostolo. Per farsi, come S. Paolo tutto a tutti, egli fu quaresimalista apprezzato sui principali pergami del Vicereame; annalista per ventidue anni nella chiesa napoletana detta Santa Maria di Costantinopoli; missionario di provincia; predicatore di innumerevoli corsi di esercizi spirituali al pubblico e alle comunità religiose; riformatore di monasteri femminili; cultore infaticabile di vocazioni sacerdotali e religiose; direttore spirituale di aristocratici e professionisti di primo rango; consigliere ricercatissimo di vescovi e prelati.
I prediletti di P. Francesco furono i pargoli. Tanti ne guarì con un segno di croce o ungendoli con l\’ "olio di S. Ciro" verso cui nutriva una particolare devozione, e ne risuscitò uno che la mamma gli aveva posto nel confessionale, morto, perché non aveva di che pagare la sepoltura. Prima che nascesse S. Maria Francesca dalle Cinque Piaghe (+1791), il santo tranquillizzò la madre di lei profetandole che avrebbe dato alla luce una bambina prodigiosa. In casa di Giuseppe de\’ Liguori benedisse S. Alfonso (+1787) ancora bambino, e predisse che sarebbe stato vescovo, sarebbe vissuto fino a novant\’anni e che avrebbe operato grandi cose per Gesù Cristo.
Smisurato fu anche l\’amore di P. Francesco per i poveri. Fin dal mattino essi lo attendevano presso l\’altare e durante la giornata affollavano la sagrestia o assiepavano il suo confessionale per avere da lui sussidi, per affidargli un affare, per implorare giustizia contro gli oppressori. Per suo tramite, somme incalcolabili passarono dalle mani dei ricchi a quelle dei poveri. Poiché ogni giorno, a mensa, egli si privava del meglio per riservarlo ai bisognosi, i confratelli si domandavano come facesse a vivere. Visitando i diversi collegi dei gesuiti o le case private, si faceva dare capi di biancheria e abiti smessi, ne faceva dei grossi fagotti e, tornato a casa, passava le ore notturne a rammendarli per i poveri. I miseri si erano fatta una opinione esagerata della sua possibilità di sovvenirli. Chi rimaneva senza sussidi insisteva fino alla noia non credendo che egli non disponesse più di niente, ma egli ripeteva con eroica pazienza: "Figlio mio, non ho più nulla".
Non minore fu la sollecitudine di P. Francesco per i malati più miseri e ributtanti. A Napoli non c\’era moribondo che non desiderasse averlo accanto al proprio capezzale perché possedeva un\’arte speciale per calmare le coscienze più agitate. I portinai di "Casa professa" erano meravigliati di trovarlo sempre intento allo studio o alla preghiera quando lo andavano a chiamare nel cuore della notte per qualche infermo grave. Sul letto di morte egli confidò di avere guarito oltre 10.000 malati mediante l\’intercessione di S. Ciro. Francesco De Geronimo brandì fino all\’ultimo mese della sua vita la spada della parola di Dio, e morì, come aveva per sette volte predetto, l\’11-5-1716. Pio VII lo beatificò il 2-5-1806 e Gregorio XVI lo canonizzò il 26-5-1839. Le sue reliquie sono venerate a Grottaglie (Taranto) nella chiesa eretta dai Gesuiti in suo onore.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 5, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 166-171.
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