S. BENILDO ROMANÇON (1805-1862)

Nacque a Thuret il 14 giugno 1805 e fu battezzato col nome di Pietro Romançon. Per molti anni fu addetto a varie scuole dove si fece dovunque apprezzare dai confratelli, per la sua dolcezza, e dagli alunni, per la sua sapienza pedagogica. Particolare impegno mise sempre nell'insegnamento del catechismo: in questa materia non ammetteva che alcun alunno rimanesse ignorante. Prendeva perciò a parte i più tardivi e con essi insisteva, fino a che avessero imparato a dovere le formule e il loro senso.  Il 21 settembre1841 Benildo fu inviato a Sangues, a fondare e dirigere una nuova scuola, richiesta da quel comune e finanziata con pubblica sottoscrizione, ed ivi rimase fino alla morte che avvenne il 13 agosto 1862.

Il Fratel Benildo, al secolo Pietro Romançon, nacque a Thuret, piccolo villaggio dell'Alvernia (Francia), nei pressi di Clermont, il 14-6-1805, da un agiato contadino. Quando cominciò a frequentare la scuola fu senza competitori il primo della classe, benché fosse costretto a marinarla sovente per attendere al pascolo o ai più urgenti lavori dei campi verso i quali non sentì mai molta attrattiva. Agli uffici della parrocchia fu invece esemplarmente assiduo. Aveva imparato dalla mamma a pregare guardando il tabernacolo e a soffrire per amore di Gesù. Per tutta una vendemmia, particolarmente scarsa, seppe trattenersi dall'assaggiare l'uva alla semplice raccomandazione dei genitori.
Un giorno, dopo la prima comunione, si recò con la mamma alla fiera di Clermont. All'uscita del Santuario di nostra Signora del Porto, rimase colpito dall'aspetto devoto di un Fratello delle Scuole Cristiane che veniva loro incontro con la corona del rosario in mano. La mamma spiegò al figlio che i discepoli di S. Giovanni Battista de La Salle (+1719) avevano la missione di fare scuola, per amore di Dio, specialmente ai fanciulli poveri. Allora egli, con aria pensosa e soddisfatta, esclamò: "Così, mamma, voglio essere anch'io!".
In quel tempo i Fratelli aprirono nella vicina Riom un loro Istituto. I Romançon vollero affidare ad essi l'educazione del loro figlio. Pietro ebbe così modo di conoscere meglio la sua vocazione e di seguirla. Per la sua troppo bassa statura gli fu procrastinata l'entrata in noviziato. Ne soffrì e pregò: "Signore, voi mi potete consolare; io non vi chiedo che una cosa, di salvare la mia vocazione". Il suo desiderio poté essere soddisfatto dopo due anni. Nel partire per il noviziato di Clermont (1820) la mamma gli disse: "Va', Pietro, e sii un santo Fratello; è Dio che ti chiama". Pietro, divenuto con la vestizione della divisa religiosa Fratel Benildo, tenne fede alla consegna e con un continuo, volontario annientamento di sé, pur battendo le vie comuni, raggiunse le altezze delle virtù eroiche. Non gli mancarono momenti d'indicibile sconforto, ma li superò aprendosi col suo direttore spirituale. Il padre, dinanzi all'incubo della vecchiaia incalzante, era andato a trovarlo per convincerlo a ritornare in famiglia, ma egli restò irremovibile nella sua decisione. Ripeterà frequentemente più tardi: "Preferirei morire piuttosto di tradire la mia fedeltà alla chiamata divina". Alla morte della mamma, il babbo gli fece notare che avrebbe fatto meglio a restare con lui, ma egli gli rispose: "No, papa! Amo meglio essere Fratello che imperatore".
Terminato il noviziato, Fratel Benildo, anziché riprendere subito gli studi dello Scolasticato, fu dai superiori incaricato della scuola ai piccoli di Aurillac (1821-1825) tanto era grande in quella provincia religiosa il bisogno di operai. Dagli alunni il santo fu amato per l'impegno che metteva nel preparare le lezioni, ma anche temuto perché per tutta la vita fu un insegnante severo per temperamento. Ai suoi Fratelli, esposti come lui al pericolo di qualche intemperanza, diceva: "Correggiamo il male in quelli che il cielo ha affidato alla nostra guida, ma non offendiamo il Signore". Anch'egli fece uso, conforme alla Regola e alle usanze dei tempi, della "ferula", consistente in due strisce di cuoio. Se ne serviva per battere, come "extrema ratio", sulle dita dei più indisciplinati e cocciuti montanari, addensati a cento per volta in una classe.
Pio XI, quando proclamò l'eroicità delle virtù di Fratel Benildo (1928) non esitò a scagionarlo della presunta mancanza di mansuetudine proclamando la necessità di essere severi con gli alunni per piegarli ai doveri scolastici e alla disciplina.
Per Fratel Benildo il periodo di tempo che corre dal 1825 al 1839 fu il più umile e il più monotono. Pur non lasciando mai del tutto l'insegnamento, egli divenne all'occorrenza portinaio, cuoco, giardiniere a Moulin (1825), a Limoges (1827), a Clermont (1836), a Montferrand (1838). Ai desideri dei superiori non si rifiutava mai perché in essi e nella regola vedeva soltanto la volontà di Dio. Quando, però, a due anni dalla professione religiosa perpetua ( 1836), fu nominato direttore della piccola scuola di Billom, egli ne rimase costernato. L'abitudine a sentire bassamente di sé gli rappresentava come inattuabile una investitura che egli pensava superiore alle proprie forze. La scuola locale laica faceva una lotta aperta alla libertà di azione dei Fratelli. I superiori ritennero opportuno inviarvi Benildo perché lo sapevano dotato di equilibrio e di mano forte. Siccome amava le anime a lui affidate, egli instaurò un cordiale rispetto verso tutti. A un Fratello che per via non aveva restituito il saluto ad un bimbo, disse amabilmente: "Avrebbe dovuto salutare almeno il suo angelo custode". Come poi esigeva una grande diligenza professionale negli insegnanti, così richiedeva altrettanta corrispondenza negli alunni. A quelli della sua classe diceva: "Se talora vi punisco, è perché vi amo". Gli stessi suoi allievi erano costretti a confessare che "malgrado il suo giusto rigore, egli era un santo". Sapeva stimolare le energie di tutti, ma più ancora controllare lo sforzo personale di ciascuno. All'inizio del secondo anno di sua direzione il numero delle classi fu raddoppiato. Pur occupandosi attivamente di tutto, il suo cuore era pieno di Dio. Alla sua presenza i Fratelli e i genitori degli alunni sentivano che "la terra non era nulla" per lui.
Billom aveva collaudato l'abilità di Fratel Benildo. Un ordine del superiore generale, dopo appena due anni, lo designò (1841) alla fondazione di una nuova casa a Saugues, nella diocesi di Le Puy (Alta Loira), sollecitata e finanziata dal parroco e dal sindaco allo scopo di togliere dalla strada la gioventù ignorante e corrotta. Fratel Benildo volle consacrare la casa a San Giuseppe verso il quale nutriva una tenera devozione. Gli alunni, distribuiti in principio in due classi, salirono presto a trecento e si manifestarono eccezionalmente ribelli, talora anche ostili. Il santo si avvide che con una bontà dissimulatrice e rinunciataria avrebbe fallito. Per non fare sì che il vizio fosse premiato e la virtù derisa, si dimostrò buono con i diligenti e severo con gli indisciplinati, e raggiunse il suo scopo. Un giorno dovette allontanare dalla scuola uno scapestrato. Costui se ne vendicò scagliando tré gattini, che aveva strozzati, contro il severo Direttore intento a fare scuola, in un angolo del giardino, a un gruppo di alunni ritardati. Il padrone del mariuolo, saputo l'accaduto, glielo condusse davanti perché gli presentasse le proprie scuse. Fratel Benildo mostrò amabilmente al discolo il suo torto e lo esortò a pregare facendogli dono di una corona del rosario.
Anche il parroco di Saugues in principio non comprese le esigenze economiche dei Fratelli, e rivolse loro dal pulpito i più amari rimproveri.
Come un giorno il suo fondatore, il santo si limitò a ripetere di fronte agli indegni addebiti: "Dio sia benedetto". Col tempo il parroco ebbe il coraggio di riconoscere i propri torti e di rendere giustizia ai Fratelli delle Scuole Cristiane. Del loro Direttore, che fu suo penitente per circa vent'anni, un po' più tardi dirà: "Avrà un giorno l'onore degli altari". A questa testimonianza fece eco quella dei genitori degli alunni, i quali dicevano: "Abbiamo a superiore della nostra scuola un Fratello, piccolo di statura, ma grande in tutto il resto. Egli educa e istruisce in modo ammirabile i nostri figli. E pieno di scienza e parla di Dio come un santo. Non è altezzoso e riceve tutti con bontà. Ha una fedeltà assoluta per la sua Regola, e nulla può smuoverlo. È pio come un angelo. Non abbiamo mai avuto un maestro come lui. Voglia il cielo conservarcelo per il nostro bene e per l'onore della nostra terra".
Fratel Benildo rimase per ventun anni Direttore della scuola di Saugues. Sono circa 300 le vocazioni che egli guadagnò al suo istituto e altrettante al sacerdozio e ad altri Ordini religiosi. Aveva stabilito che tutti i mercoledì, nelle varie classi, gli alunni recitassero una speciale preghiera, che terminava con l'invocazione: "Grande S. Giuseppe, fammi conoscere la mia vocazione". Ai suoi scolari Fratel Benildo parlava di Dio come pochi sacerdoti sanno fare. Tutti ammiravano la chiarezza e la semplicità con cui sapeva dialogare con loro e farli risalire dalle creature alla considerazione del Creatore e delle verità eterne. Uno scolaro, fatto adulto, attestò; "Noi tutti amavamo più di ogni altra cosa i suoi catechismi, il suo metodo, la sua pietà; tanto c'interessava che lo divoravamo con gli occhi".
Avvezzo a correre nelle vie di Dio, Fratel Benildo non permetteva alle anime di indugiarsi nella mediocrità. Ai suoi collaboratori diceva: "La sorveglianza è un atto di affetto verso i nostri alunni, e specialmente verso le loro anime; procuriamo che esso sia un atto soprannaturale". Altre volte li esortava a considerare i propri allievi come degli "infermi che hanno bisogno continuamente delle cure di tutti". Non amava gli educatori deboli di volontà, che pretendevano sostituire l'esercizio sano dell'autorità con l'insipida e morbosa offerta di sdolcinati affetti. Rifuggendo dalla faciloneria e dai compromessi, meritò che le autorità civili, a mezzo dell'Accademia di Clermont, gli decretassero l'onore della medaglia d'argento, con relativo diploma, a riconoscimento dell'efficacia del suo metodo d'insegnamento.
Anche nella formazione religiosa e professionale dei Fratelli il Santo fu di una estrema diligenza. Ebbe grande rispetto delle loro iniziative personali, pur essendo incisivo nel definire un principio, giusto nel distribuire le responsabilità. Con essi non si permise mai familiarità alcuna, ma ebbe il dovuto rispetto di chi sa di trattare strumenti eletti da Dio per l'educazione della gioventù. Di fronte ai diritti della vita religiosa Fratel Benildo non sapeva transigere, con disappunto di qualche religioso tiepido, il quale, perché non se la sentiva di tenere il passo, si attentava a dire, con mal celata ironia: "Saugues è un secondo noviziato dei Fratelli". Benché paterno e sempre pronto ad ogni sacrificio per compiacere i suoi sudditi, non volle mai esserlo a spese della regolarità. Nonostante la ripugnanza che provava nel richiamarli al dovere, non trascurava tuttavia di perseguire con energia i violatori della Regola e di sanzionare le infrazioni con esemplari penitenze attenendosi alle tradizioni più rigide del suo Istituto. A chi dava segni di noia o di stanchezza ripeteva: "II riposo ci sarà nell'eternità".
Esigente con i Fratelli, il santo Direttore lo era molto di più con se stesso. Un teste al processo canonico affermò: "II peccato e lui erano come l'acqua e il fuoco". Quando gli avveniva di cadere in qualche imperfezione o anche solo di sbagliare nel suono della sveglia mattutina, ne chiedeva perdono in pubblico incrociando le mani sul petto e baciando la terra. Quel giorno i pasti, ridotti della loro già scarsa consistenza, erano da lui consumati in ginocchio. In tempi di penitenza e di gravi necessità per la sua famiglia religiosa, il santo si prostrava alla porta del refettorio e attendeva al passaggio i suoi Fratelli per baciare a ciascuno di loro i piedi.
In omaggio alla Regola non mangiò mai fuori pasto ed evitò di bere anche solo una goccia d'acqua nell'arsura estiva. Per tutta la vita rinunciò all'uso dei liquori e al piccolo sollievo di una tazza di caffè con la scusa che gli faceva male. I suoi digiuni occupavano, con vario rigore, quattro mesi dell'anno. Portava il cilicio e si flagellava sovente nonostante i reumatismi e il corpo già martoriato da un penoso cauterio. Dormiva sopra un semplice saccone imbottito di stecche di legno, per avere così modo di soffrire.
Benché dovesse ricevere di frequente i genitori degli alunni della scuola, Fratel Benildo vestì sempre da povero abiti lisi, dimessi da altri e anche rattoppati. Per spirito di povertà cucì e rammendò la propria biancheria e anche quella dei Fratelli occupati nell'insegnamento; utilizzò un foglio di carta e risparmiò un centesimo per provvedere segretamente gli oggetti scolastici agli alunni meno abbienti e soccorrere quanti erano caduti in povertà. Soleva dire: "I poveri sono i miei fratelli". Per sfamarli si privava delle migliori pietanze e per sollevarli nelle loro malattie faceva ricorso al carisma delle guarigioni ricevuto da Dio.
L'anima della attività del santo era l'Eucaristia. Il parroco di Saugues non aveva saputo resistere alla spinta ascensionale dell'amore che Fratel Benildo portava al Signore, e aveva dovuto concedergli la comunione quotidiana, rarissima a quei tempi a causa dello spirito giansenista che predominava nella mentalità del clero. Dopo averla ricevuta, il santo Fratello sovente piangeva per la gioia che ne provava. Lungo la giornata, in tutti i ritagli di tempo, egli "si precipitava" in cappella a pregare davanti al tabernacolo, per la conversione dei peccatori e le necessità di tutti i confratelli. Entrando in chiesa era talmente compreso della presenza di Dio che sentiva il bisogno, prima di prendere posto nel banco, di prostrarsi e baciarne il pavimento. Per conservare il dovuto raccoglimento soleva pregare dinanzi al crocifisso che portava sempre con sé. I dolori del Figlio di Dio formavano l'oggetto della sua meditazione. Alla lettura della Passione del Signore non di rado fu visto versare abbondanti lacrime anche in pubblico. Nessuno lo scorse mai appoggiato al banco durante gli esercizi di pietà ne con le braccia, ne con la schiena. Per vederlo pregare i novizi chiedevano talvolta il permesso di andare in cappella. L'orazione riempiva la vita di Fratel Benildo e lo univa costantemente a Dio. Anche durante i passeggi era capace di inginocchiarsi in mezzo ai campi e di restarvi in raccoglimento come davanti all'altare. Per gli abitanti di Saugues Fratel Benildo era "l'uomo del rosario". Difatti non lasciava mai la corona né in casa, né per via, né tra i suoi ragazzi.
Il Signore concesse a Fratel Benildo il dono della profezia. Più volte e in varie maniere predisse la sua morte. La sua esistenza era minata, pare, da un cancro al fegato. La festa della SS. Trinità, non potendo lasciare il letto per la consueta rinnovazione dei voti, si fece portare il libro delle Regole, se lo strinse al cuore e pianse al pensiero di non averle osservate come avrebbe dovuto. I Fratelli, date le sue sofferenze, si sforzavano di indurlo a dispensarsi da questo o quel punto di esse. Non ne volle sapere perché si sentiva in dovere di dare fino alla fine il buon esempio. A chi gli chiedeva notizie riguardo alla salute, rispondeva: "Mi preme d'incominciare il mio viaggio per il cielo". A chi lo commiserava per i dolori che provava, diceva: "Le mie sono croci di paglia". Negli ultimi giorni temette i rigori della giustizia divina, ma riacquistò la serenità di spirito con l'abitudine di conformarsi alla volontà di Dio e di invocarlo frequentemente.
Fratel Benildo morì il 13-8-1862. Nella notte in cui spirò la camera di un suo nipote fu stranamente inondata da una bianca luce, e il giorno dei funerali, al passaggio del feretro, una suora domenicana inferma riacquistò improvvisamente l'uso delle gambe. Pio XII lo beatificò il 4-4-1948 e Paolo VI lo canonizzò il 29-10-1967. Le sue reliquie sono venerate a Saugues (Alta Loira), nella cappella del collegio dei Fratelli delle Scuole Cristiane.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 8, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 122-128.
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