S. AGNESE (III secolo)

Confessa Eusebio di aver assistito al taglio della testa di una così grande moltitudine di persone nello stesso giorno, che il ferro omicida si ottundeva. Gli stessi carnefici, spossati, erano costretti a darsi ogni tanto il cambio. I martiri, sostenuti dalla grazia, sotto i colpi della spada e della scure, noncuranti dei tormenti, cantavano inni e ringraziavano Dio fino all’ultimo respiro. Anche la piccola Agnese subì una delle tante atroci pene escogitate dai persecutori.

(III secolo)
21 gennaio
Non sappiamo nulla della famiglia di questa celebre e popolare martire romana. La parola Agnese, traduzione dell’aggettivo greco “pura”, esprimeva forse il suo soprannome di battesimo. Ella visse in un periodo in cui non era lecito professare pubblicamente la propria fede. Secondo alcuni storici avrebbe versato il sangue il 21 gennaio di un anno in cui infieriva la persecuzione di Valeriano (258-260); secondo altri, con più seria probabilità, lo avrebbe versato durante la persecuzione scatenata da Diocleziano (304) per istigazione del suo Cesare Galerio.
I superstiziosi romani consideravano i cristiani come degli odiatori del genere umano, responsabili delle loro sciagure. Credevano che si dessero alla magia per le strepitose conversioni che operavano, i miracoli che facevano e la fermezza che dimostravano tra le torture. Siccome quasi tutte le sètte pagane si macchiavano delle peggiori disonestà, i Quiriti accusavano i cristiani di vizi infami, di infanticidio e di banchetti tiestei. Perché non adoravano il genio dell’imperatore e non consideravano lo stato un’incarnazione della divinità sulla terra, erano ritenuti atei, colpevoli del delitto di lesa maestà. Toccò loro persino l’accusa d’inerzia politica, giacché si astenevano da ogni sorta di pubblico impiego per non trovarsi nella condizione di prendere parte ad atti di culto idolatrico.
Non stupisce perciò che ogni tanto qualche imperatore, per rinsaldare le compagini della barcollante società, ordinasse, pena la morte, ora il sacrificio pagano, ora la consegna dei libri sacri, ora la distruzione dei templi o la confisca dei beni. Durante la persecuzione di Diocleziano i cristiani furono uccisi in cosi grande numero che quel periodo fu denominato l’Era dei Martiri. Eusebio, vescovo di Cesarea, nel capitolo VIII della Storia Ecclesiastica ha fatto raccapriccianti descrizioni dei tormenti ai quali furono sottoposti i cristiani alla sua presenza. In Egitto migliaia e migliaia di uomini con le loro mogli e i loro figli, dopo essere stati martoriati con le unghie di ferro, i cavalletti, le sferze più crudeli furono consegnati parte al fuoco, parte furono sommersi in mare, o decapitati, o lasciati morire di fame, o inchiodati a rovescio sul patibolo con la testa ali’ ingiù, e tenuti in vita fino a quando fossero consumati dalla fame. E poiché contro i condannati chiunque poteva infierire, alcuni li percuotevano con bastoni e verghe, altri con cinghie e corde. Taluni venivano sospesi al palo con le mani legate dietro la schiena e stirati in tutte le membra per mezzo di argani. In tali posizioni gli aguzzini li tormentavano ancora con vari strumenti, non soltanto sui fianchi, come facevano con gli assassini, ma anche sul ventre, sugli stinchi e sulle guance. Altri venivano sospesi per una mano ad un portico; altri venivano legati a colonne, con le facce rivolte l’uno contro l’altro senza alcun sostegno sotto i piedi. Essi soffrivano lo stiramento violento dei muscoli non soltanto per tutto il tempo in cui il governatore li interrogava senza dar loro tregua, ma quasi per tutta la giornata.
I martiri della Tebaide venivano raschiati su tutto il corpo con delle conchiglie, invece che con unghie di ferro, finché morivano. Certe donne, legate a un piede, venivano sospese con la testa all’ingiù. e con argani stirate in alto, di modo che con i loro corpi ignudi davano spettacolo turpe e disumano a quanti le rimiravano. Altri cristiani morivano legati ad alberi e a tronchi; oppure venivano sospesi con le gambe a rami ripiegati con forza, e squartati permettendo che i rami ritornassero nella loro posizione naturale.
Confessa Eusebio di aver assistito al taglio della testa di una così grande moltitudine di persone nello stesso giorno, che il ferro omicida si ottundeva. Gli stessi carnefici, spossati, erano costretti a darsi ogni tanto il cambio. I martiri, sostenuti dalla grazia, sotto i colpi della spada e della scure, noncuranti dei tormenti, cantavano inni e ringraziavano Dio fino all’ultimo respiro.
Anche la piccola Agnese subì una delle tante atroci pene escogitate dai persecutori. La narrazione leggendaria della sua Passione è falsamente attribuita a S. Ambrogio, arcivescovo di Milano (+397). Essendo posteriore al secolo V, ha scarsa autorità storica. Della santa parlano, sia pure in maniera vaga e discordante, la Depositio Martyrum del 336, il più antico calendario della Chiesa romana; il martirologio di Cartagine del secolo VI; S. Ambrogio in De Virginibus che scrisse nel 377 per suggerimento della sorella Marcellina; il papa S. Damaso ( + 384) nel suo carme che si conserva ancora oggi nella lapide originale murata nella basilica romana di S. Agnese fuori le mura; il poeta spagnolo Prudenzio nell’ode 14 del Peristefhanòn. Dal complesso dei dati si ricava che S. Agnese fu messa a morte per la fede e il pudore a tredici anni forse per decapitazione (secondo Ambrogio e Prudenzio), forse mediante fuoco (secondo S. Damaso). L’inno ambrosiano Agnes beatae virginis mentre parla della iugulazione di lei, mette in rilievo la cura della santa nel coprire il suo verginale corpo con le vesti e il viso con la mano cadendo al suolo. Secondo Damaso ella si sarebbe coperta con le abbondanti chiome.
Il martirio di S. Agnese è anche messo in relazione con il suo proposito di verginità. La Passione e Prudenzio aggiungono l’episodio dell’esposizione della giovanetta in un postribolo, per ordine del giudice, da cui miracolosamente uscì incontaminata. Il corpo della martire fu inumato nella galleria di un cimitero cristiano già esistente sulla sinistra della via Nomentana. Sulla sua tomba fu fatta costruire una piccola basilica da Costantina, figlia di Costantino il Grande, poco prima del 350, in ringraziamento della riacquistata salute. Dopo la sua morte volle essere seppellita poco lontano dalla tomba nel superbo mausoleo ancora esistente. La basilica, accanto alla quale sorse uno dei primi monasteri romani di vergini consacrate, fu più volte rinnovata ed ampliata nel corso dei secoli, e l’adiacente cimitero fu scoperto ed esplorato metodicamente, dal 1865 in poi, da Mariano Armellini, noto discepolo di G. B. De Rossi. Il cranio della martire fu posto nel secolo IX nel Sancta Sanctorum o cappella papale del Laterano. Dal tempo di Leone XIII esso è venerato nella chiesa di S. Agnese in Agone, che sorge sul presunto luogo del postribolo dove fu esposta. Il resto del corpo riposa nella basilica di S. Agnese fuori le mura in un’urna d’argento fatta eseguire da Paolo V.
S. Agnese è invocata dalle Figlio di Maria per la conservazione della castità. S. Ambrogio cosi ne scrisse: “Quest’oggi è il natale di una vergine, imitiamone la purezza. È il natale di una martire, immoliamo delle vittime. È il natale di S. Agnese, ammirino gli uomini, non disperino i piccoli, stupiscano le maritate, l’imitino le nubili… La sua consacrazione è superiore all’età, la sua virtù superiore alla natura: così che il suo nome mi sembra non esserle venuto da scelta umana, ma essere predizione del martirio, un annunzio di ciò ch’ella doveva essere. Il nome stesso di questa vergine indica purezza. La chiamerò martire: ho detto abbastanza… Si narra che avesse tredici anni allorché soffrì il martirio. La crudeltà fu tanto più detestabile in quanto che non si risparmiò neppure sì tenera età; o piuttosto fu grande la potenza della fede, che trova testimonianza anche in siffatta età. C’era forse posto a ferita in quel corpicciolo? Ma ella che non aveva dove ricevere il ferro, ebbe di che vincere il ferro”.
“Eccola intrepida fra le mani sanguinarie dei carnefici, eccola immobile fra gli strappi violenti di catene stridenti, eccola offrire tutto il suo corpo alla spada del furibondo soldato, ancora ignara di ciò che sia morire, ma pronta, s’è trascinata contro voglia agli altari idolatri, a tendere, tra le fiamme, le mani a Cristo, e a formare sullo stesso rogo sacrilego il segno ch’è il trofeo del vittorioso Signore… Non così sollecita va a nozze una sposa, come questa vergine lieta della sua sorte, affrettò il passo al luogo del supplizio. Mentre tutti piangevano, lei sola non piangeva. Molti si meravigliavano che con tanta facilità donasse prodiga, come se già fosse morta, una vita che non aveva ancora gustata. Erano tutti stupiti che già rendesse testimonianza alla divinità lei che per l’età non poteva ancora disporre di sé… Quante domande la sollecitarono per sposa! Ma ella diceva: “È fare ingiuria allo sposo desiderare di piacere ad altri. Mi avrà chi per primo mi ha scelta: perché tardi, o carnefice? Perisca questo corpo che può essere bramato da occhi che non voglio”. Si presentò, pregò, piegò la testa… Ecco pertanto in una sola vittima un doppio martirio, di purezza e di religione. Ed ella rimase vergine e ottenne il martirio”. (Da De Virginibus, 1. 1).
 
 Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 1, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 245-248.
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