Il ‘Dies Irae’

Commento di Tito Casini alla sequenza liturgica “Dies Irae” di Tommaso da Celano

IL “DIES IRAE


Dei cinque grandi poemi — seppur brevi componimenti — che il Messale ha sotto il nome di Sequenze, il Dies Irae, di Tommaso da Celano, è l’ultimo, e potrebbe dirsi il poema del terrore, come il primo, il Victimae Paschali, è il poema dell’esultanza. E questo e quello si richiaman tra loro, il primo sta all’ultimo come la risurrezione di Cristo sta alla risurrezione universale, essendone l’argomento e la causa: Nunc autem Christus surrexit a mortuis, primitiae dormientium… ita et in Christo omnes vivificabuntur. E viceversa: Si autem resurrectio mortuorum non est, neque Christus resurrexit. Parrebbe dunque che d’esultanza, come quella di Pasqua, dovesse essere anche la sequenza dei Morti. Parrebbe: ma l’uomo sa — e la lezione stessa di quel giorno dei Morti glielo rammenta — che se tutti risorgeremo, omnes quidem resurgemus, non tutti però verrem cambiati, sed non omnes immutabimur, e non esser cambiati significa inferno.



Dies irae, dies illa…



«Giorno d’ira, quel giorno…» Sembra la protasi d’Omero, così forte per quell’«ira» iniziale: Iram cane, Dea… Ma quella, che la dea deve cantare, è l’ira di un uomo (offeso da un uomo a lui maggiore in comando): questa, che un uomo balbetta, è l’ira di Dio contro il fango, ribelle sua creatura.


Ira divina — ira perfetta. In momento, in ictu oculi. Come disse «Sia!» e fu il mondo, dirà «Non sia !» e il mondo non sarà più:



Solvet saeclum in favilla


(Teste David cum Sìbylla).



Ma non tutto andrà in cenere (secondo la doppia testimonianza e giudaica e gentile, di Davide e della Sibilla): non la creatura del sesto giorno, non il fango che fu simile a Dio, Eterno, ormai, come,Dio, due sedi eterne lo aspettano, una di gioia, una di pianto: qual delle due a ognuno s’avvenga, ecco già Dio a giudicare.


Oh, lo sgomento, allorchè Dio dal suo trono verrà su’ nuvoli, co’ ministri e gli atti, alla gran giustizia!



Quantus tremor est futurus


Quando Iudex est venturus


Cuncta stricte discussurus!



Al segno di lui squillerà una tromba, e sarà segno di un’immensa adunata: dal Paradiso, dal Purgatorio e dall’Inferno balzeran fuori l’anime, quante lasciaron sulla terra la loro spoglia — e dalla terra, quante anime ne partirono verso i regni eterni, tanti corpi usciranno a ricomporsi con esse nella gran valle:



Tuba mirum spargens sonum


Per sepulecra regionum


Coget omnes ante thronum.



Morte e natura stupiranno a quell’improvviso riessere di ciò che già più non era, a quel riedificarsi istantaneo, contro legge e costume, della carne distrutta:



Mors stupebit et natura


Cum resurget creatura,


Iudicanti responsura.



Stupirà la morte, vedendo in un atto solo mancarle tutti i suoi sudditi; tutti, antichi e recenti, volontari e vinti, sebbene non tutti per odio a lei, quand’anzi molti la supplicheranno di difenderli, di mantenerli, giù negli scuri sepolcri, — molti a cui dorrà la ragione del risveglio e dell’adunata: iudicanti responsura.


La supplicheranno, e sarà inutile; vorranno uccidersi, rifarsele sudditi, e non potranno; vorran nascondersi, e non gioverà: i loro nomi son tutti iscritti in un libro, di tante pagine quanti i figli di Adamo, il libro del bene e del male, l’atto d’accusa o di premio per quanti vissero mill’anni o respirarono appena una volta sopra la terra:



Liber scriptus proferetur


In quo toturn continetur


Unde mundus iudicetur.



Libro senza lacune, dove il peccato commesso in via, alla luce del sole, e quello commesso in casa, di notte o nel più segreto del cuore, saranno ugualmente registrati: e tutti, dinanzi a tutti, saran resi palesi; e tutti dinanzi a tutti, saran vendicati:



Iudex ergo cum sedebit,


Quidquid latet apparebit:


Nil inultum remanebit.



… Ma giunto a questo col pensiero, il poeta, il povero peccator Tommaso, allibisce. Vede il Giudice che si siede, vede il libro che s’apre, vede l’angelo cancelliere che ne svolta a uno a uno i fogli, vede una pagina che porta in cima il suo nome… e i denti gli battono contro i denti, e un sudor gelido gl’inguazza la faccia…«Misero me, che dirò io allora? Chi chiamerò in mia difesa, se il giusto a mala pena sarà sicuro?»



Quid sum miser tunc dieturus?


Quent patronum rogaturus,


Cum vix iustus sit securus?


E l’ordinata, serena contemplazione si rompe in urlo di preghiera:



Rex tremendae maiestatis,


Qui salvandos salvas gratis,


Salva me, fons pietatis!



Se nessuno v’ è fra i risuscitati che possa difenderlo dal Giudice, il Giudice stesso si faccia per lui avvocato: lo salvi, lo salvi a titolo di grazia se non di merito, lo salvi, se non da giudice, da quella fontana ch’egli è pur di pietà.


Lo salvi per egoismo, se non per pietà: per rispetto di sè, per suo decoro… giacchè egli fu la prima cagione della sua discesa nel mondo; lo salvi per il suo nome di Gesù, che significa Salvatore:



Recordare, Iesu pie,


Quod sum causa tuae viae:


Ne me perdas illa die!



Tanto ti costò quella tua scesa, tanto patisti per farmi tuo, che ora parrebbe stoltezza, non ti convien rinunziarmi: «Per cercar me ti se’ seduto stracco; per francar me ti chiavellasti in croce : tanta fatica si resterà senza frutto?»



Quaerens me sedisti lassum,


Redemisti,crucemt passus:


Tantus labor non sit cassus!


No, non resterà senza frutto, non resterà inonorata; ma il povero giudicabile s’accorge d’aver parlato per proprio danno, rinfrescando al Giudice, nell’attimo ch’egli è solo giudice, la memoria di ciò che invano fece per lui nei giorni della misericordia. Sì, la croce è presente; sì, le piaghe forano ancora le mani e i piedi del Dio Uomo — ma quella che stette, sul monte, in faccia al cielo, argomento di perdono, ora sta nel cielo, in faccia agli uomini, argomento di vendetta…» Se n’accorge e l’ammette il povero peccator Tommaso: Iuste Iudex ultionis — «Giusto Giudice di vendetta…» Buon per esso che quel grande attimo non è ancora venuto — o come venuto — per lui; che il suo fu un sogno, visione di sciagura immensa e già irriparabile! Si sveglia e vede eh’ è riparabile, che per lui resta ancor tempo di perdono (forse poco e difficile: egli ha già da vicin l’ultime strida), e mutando stile e rinsaviendo la sua preghiera, quello chiede innanzi al dì del rendiconto;



Iuste Iudex ultionis,


Donum fac rernissionis


Ante diem rationis!



Ma il male è tanto, e tanto fu l’abuso, fin qui, della misericordia, ch’egli ha vergogna di mostrarsi, di aprir bocca, di dir quel parce in cui è tutto il suo merito e la sua speranza; cerca fra i passati se qualcuno peccò quanto lui o —  Dio volesse! — più di lui, si pentì tardi non men di lui e gli fu perdonato… vede la donna in cui eran stati sette demoni, vede l’uomo che dalla croce bestemmiava Cristo in croce, e ne fa, lieto, il suo argomento: «Se tu assolvesti Maria, se tu esaudisti il ladrone…»



Qui Mariam absolvisti,


Et latronem exaudisti,


Mihi quoque spem dedisti…



Sente anche la vilezza, l’inesaudibilità della propria preghiera, della voce stessa con cui gli dice d’esaudirlo, con cui gli parla e di Maria e del ladrone; ma sa ch’egli è buono, ch’egli è buono, e questo solo vuol sapere, in questo solo, Tu bonus, non più nel parce, fonda tutto il proprio merito e la propria speranza:



Preces meae non sunt dignae,


Sed tu bonus fac benigne,


Ne perenni cremer igne!



«Ch’io non bruci nel fuoco eterno…» Par che il terrore di questo fuoco renda egoista il supplicante, preoccupato di sè solo, d’aver posto a destra, fra le pecore, separatamente dai capri — come il naufrago s’affanna e lotta, dimentico anzi rivale dei compagni, per giunger lui nella barca che non tutti può accogliere onde trasportarli alla riva:



Inter oves locum praesta,


Et ab haedis me sequestra,


Statuens in parte dextra!



E ha fretta, ha fretta, il povero scampato per grazia, d’esser trasportato alla riva, quasi non si senta sicuro finchè è sull’acqua, quasi tema il gorgo dei dannati che affondano:



Confutatis maledictis,


Flammis acribus addictis,


Vota me cum benedictis!



Si ricordai, ancora una volta, come tutto dipenda dal fine suo particolare, dall’ultimo suo respiro, e supplichevole, barcollante, col cuore sfatto al par della cenere, a lui ne affida l’esito, scongiurandolo: Non mi lasciare in su l’estremo passo…:



Oro supplex et acclinis,


Cor contritum quasi cinis:


Gere curam mei finis!



Poi, dalla riva, l’egoismo del naufrago — Voca me…, gere curam mei finis — cede alla pietà pe’ fratelli, mentre anche la visione di quel giorno, dal piano divino, dies irae, scende sul piano umano: «giorno di lacrime»:



Lacrymosa dies illa,


Qua resurget ex favilla


Iudicandus homo reus!



Ed è una doppia pietà: per il fratello peccatore ma vestito ancora di carne, ancora iudicandus, ancor perdonabile — e gli supplica il perdono:



Huic ergo parce, Deus!



pei fratelli già giudicati, e perdonati, ma non ancora ammessi al riposo: e la preghiera torna a Gesù — Salvatore — e il verso sempre più s’abbrevia, quasi ad abbreviarne loro l’indugio:



Pie Iesu Domine,


Dona eis requiem!


Amen!



(Così anche l’Ira di Omero finisce nella tregua e nella pietà dell’esequie per il figlio di Priamo).



Testo tratto da: Tito Casini, I giorni del castagno, Firenze: LEF, 1943/2, 262-270.