IDENTITÀ DEL PRIMATO E FORME STORICHE DEL SUO ESERCIZIO

di FERNANDO OCÀRIZ Il compimento della missione salvifica universale della Chiesa è vincolato alla sua unità, secondo la preghiera di Gesù: ” che tutti siano una sola cosa… perché il mondo creda…” (Gv 17,21). E’ da questa prospettiva che va considerato il ministero del Successore di Pietro.

Infatti, l’unità di fede e di comunione, richiesta dalla salus animarum (1) e la ragione d’essere, la finalità del primato petrino e il criterio fondamentale del suo esercizio. Una rinnovata riflessione sul Primato è necessaria per contribuire al ristabilimento dell’unità dei cristiani, che è esigenza irrinunciabile anzitutto per lo stesso Successore di Pietro: “sono convinto – ha scritto Giovanni Paolo II — di avere a questo riguardo una responsabilità particolare” (2).
Per incoraggiare la riflessione teologica, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha ritenuto opportuno sintetizzare alcuni punti fondamentali nel testo II Primato del Successore, di Pietro nel mistero della Chiesa, che costituiscono una solida base di partenza per ulteriori approfondimenti — in particolare sulla “interiorità del ministero del Vescovo di Roma a ogni Chiesa particolare” di cui si parla al n.6 del citato documento —, e per esaminare poi le proposte concrete circa le forme di esercizio del Primato.
 
Osservazioni sull’identità del Primato
Il progresso dell’esegesi biblica ha permesso di capire sempre di più il significato ed il contenuto del primato petrino. D’altra parte, lo sviluppo degli studi patristici e di storia della Chiesa ha contribuito pure a una maggiore presa di coscienza dell’importanza teologica del fatto che, sin dal primo secolo, il Vescovo di Roma è stato considerato nella Chiesa Successore di Pietro e ha esercitato quello specifico ministero che, nella Sacra Scrittura, appare quale ministero proprio ed esclusivo dell’Apostolo Pietro tra i Dodici e tra la moltitudine dei discepoli (3).
L’identità del Primato consiste nell’essere fondamento sul quale il Signore ha voluto edificare la sua Chiesa (cf. Mf 16,18). Siccome lo stesso Gesù Cristo è il fondamento della Chiesa (cf. 1 Cor 3,11; 1 Petr 2,4-7). l’identità del Primato deriva dal fatto di aver “reso Simon Pietro partecipe della propria qualità di fondamento” (4). Cristo è fondamento in quanto Capo nel quale si trova il principio interiore dell’unità della Chiesa: lo Spirito Santo che da vita a tutto il Corpo. Così anche Pietro è fondamento in quanto capo del Collegio Apostolico e di tutti i fedeli. Gli altri Apostoli sono fondamento della Chiesa, ma Pietro partecipa di questa qualità in un modo peculiare, cioè come capo. Perciò si può dire che vi è tra Cristo e Pietro “un rapporto istituzionale” che “si riflette così sul rapporto Pietro-Chiesa” (5). Questo rapporto è caratterizzato dalla particolare missione di Pietro al servizio dell’unità di fede e di comunione (6).
Confermare i fratelli (cf. Lc 22,32) e pascere le pecore (cf. Gv 21,15-17) costituiscono congiuntamente la missione di Pietro: si direbbe il proprium del suo ministero universale ” (7). Un ministero conferito da Gesù a Pietro come persona singolare, ma che non va inteso come separato o isolato dagli altri, bensì “con espressione di Agostino, totius Ecclesiae figuram gerenti (Epist 53,1,2), ossia in quanto egli personalmente rappresenta la Chiesa intera” (8). E quindi un ministero episcopale che comporta una modalità specifica della potestà episcopale: quella che corrisponde a colui che ha la funzione di essere capo del Collegio apostolico (9).
Questa missione specifica e la relativa potestà che richiede non sono circostanziali ma esigenza della natura della Chiesa che permane in ogni tempo. Infatti, “questa funzione di Pietro deve restare nella Chiesa affinché sotto il suo solo Capo, che è Cristo Gesù, essa sia visibilmente nel mondo la comunione di tutti i suoi discepoli” (10). Così come tra gli Apostoli c’è stato uno, Pietro, messo a capo degli altri con un ministero specifico, così tra i Vescovi — nel corpus episcoporum — deve esistere sempre un capo al quale aspetta l’adempimento di quel ministero. Mentre gli altri Apostoli hanno tutti lo stesso ministero, e quindi la loro successione da parte dei Vescovi non è personale, lo specifico ministero di Pietro richiede invece un Successore. Uno è l’Apostolo che è a capo del Collegio apostolico, uno è anche il Vescovo che è capo del Collegio dei Vescovi (11).
La Tradizione della Chiesa afferma in modo inequivocabile che sin dal primo secolo il Vescovo di Roma, sede del martirio di Pietro, è stato considerato quale suo Successore e ha svolto il suo specifico ministero (12). Anche il martirio di Paolo nella stessa Roma ha un profondo significato per il ministero petrino, attestandone l’universalità e il dinamismo apostolico e missionario. Tuttavia la ragione ultima per la quale Roma è la prima sede è l’essere la sede del Successore di Pietro. Il primato del Vescovo di Roma non proviene, per così dire, da Roma ma da Pietro; non dall’onore di essere Roma la capitale dell’impero ma dall’onere — la missione, il ministero, la potestà — che deriva dall’essere la sede di Pietro, il luogo del suo martirio annunziato da Cristo proprio quando gli ha conferito il Primato (cf. Cv 21,17-19) (13). Il Successore di Pietro non è semplicemente il capo di una Chiesa particolare — quella di Roma — ma anche il capo visibile della Chiesa universale, e si riconosce come tale per essere il Vescovo di Roma, la sede dove Pietro ha sigillato definitivamente la sua testimonianza di Cristo attraverso, appunto, il martyrium.
Prima del suo arrivo a Roma, Pietro era già capo della Chiesa di Cristo; Chiesa già universale a Pentecoste, e formata poi da diverse Chiese particolari nate da lei con l’espandersi dell’evangelizzazione (14) e nelle quali ” è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica” (15). Perciò “dobbiamo vedere il ministero del successore di Pietro, non solo come un servigio “globale” che raggiunge ogni Chiesa particolare dall’esterno ma come già appartenente all’essenza di ogni Chiesa particolare dal “di dentro”) (16). Per approfondire questo punto, veramente nodale per la comprensione del primato del Vescovo di Roma e per l’ecumenismo, bisogna tener presente che la comunione nella Chiesa è un mistero soprannaturale di partecipazione nella vita trinitaria. Le Chiese particolari, pur essendo Chiese diverse, costituiscono un’unica Chiesa, la Chiesa universale, essendovi una mutua interiorità tra Chiesa particolare e Chiesa universale (17), che comporta che il ministero del Successore di Pietro ed il Collegio episcopale siano elementi interiori e costitutivi di ogni Chiesa particolare (18).
La Chiesa universale non è una nozione astratta, e neanche la “somma” delle Chiese particolari: (19) “non è il risultato della loro comunione, ma, nel suo essenziale mistero, e una realtà ontologicamente e temporalmente previa ad ogni singola Chiesa particolare” (20). Per questo motivo, è di fondamentale importanza che la mutua interiorità tra Chiesa universale e Chiesa particolare vada affermata assieme alla priorità ontologica della Chiesa universale. Questa priorità significa che le Chiese particolari ” nascendo nella e dalla Chiesa universale, in essa e da essa hanno la loro ecclesialità ” (21).
Infatti, l’ecclesialità — l’essere Chiesa — di ogni Chiesa particolare deriva dalla Chiesa universale: dal suo essere presenza della Chiesa universale in una porzione dell’umanità; invece, l’essere Chiesa – l’ecclesialità — della Chiesa universale non deriva dal suo essere Comunione di Chiese particolari, perché ha anche in sé delle realtà essenziali — le strutture al servizio dell’unità nella Communio: il Collegio Episcopale e il Primato — “non derivati dalla particolarità delle Chiese “, (22) ma tuttavia inferiori ad ogni Chiesa particolare (23).
Il servizio del Successore di Pietro alla Chiesa universale e quindi, ad ogni Chiesa particolare, è una modalità della episkopé sacramentale, che riguarda “la vigilanza sulla trasmissione della Parola, sulla celebrazione sacramentale e liturgica, sulla missione, sulla disciplina e sulla vita cristiana” (24).
Per quanto riguarda il munus docenti, il Successore di Pietro hauna specifica e particolare responsabilità nella missione evangelizzatrice (25). Il suo è un ufficio magisteriale supremo e universale (26) con una specifica assistenza dello Spirito Santo che porta con se, in certi casi, la prerogativa dell’infallibilità (27). Per quanto riguarda l’esercizio del munus sanctificandi, corrisponde al ministerium petrinum, in quanto interiore a ogni Chiesa particolare, la capacità di intervenire nell’ordinare e moderare la celebrazione liturgica dei sacramenti in tutti i riti della Chiesa, e massimamente la celebrazione dell’Eucaristia ” centro e radice della comunione ecclesiale, comunione che si fonda anche necessariamente sull’unità dell’Episcopato” (28). Perciò, ” ogni valida celebrazione dell’Eucaristia esprime questa universale comunione con Pietro e con l’intera Chiesa, oppure oggettivamente la richiama”, (29) come nel caso delle Chiese che non sono ancora in piena comunione con la Sede di Pietro. Il munus regendi del Papa è — come gli altri munera — un ufficio di natura episcopale ma con la specificità propria del capo del Collegio dei Vescovi. Si tratta anzitutto di una potestà ministeriale, che quindi non va intesa come dominio ma come servizio (30). Consiste nella potestà di giurisdizione suprema, universale, piena e immediata sui pastori e su tutti i fedeli (31). Poiché l’Episcopato è uno e indiviso, la potestà di giurisdizione del Successore di Pietro è un servizio all’esercizio unitario della funzione episcopale nella comunione delle Chiese particolari in ordine alla salvezza delle anime, (32) che “comporta la facoltà di porre gli atti di governo ecclesiastico necessari o convenienti per promuovere e difendere l’unità di fede e di comunione”, (33) naturalmente con i limiti che procedono dalla legge divina e dall’inviolabile costituzione divina della Chiesa contenuta nella Rivelazione (34).
Il contenuto teologico della potestà di giurisdizione del Successore di Pietro si manifesta con particolare chiarezza alla luce del rapporto tra Chiesa universale e Chiesa particolare. Mi sembra utile a questo riguardo sottolineare due aspetti. Innanzitutto, che ogni singolo Vescovo è membro del Corpus Episcoporum non perché è capo di una Chiesa particolare — molti di essi non lo sono —, ma piuttosto egli ha la capacità di essere capo di una Chiesa particolare perché è membro del Collegio Episcopale; e ciò perché ” il Collegio Episcopale, in quanto elemento essenziale della Chiesa universale, è una realtà previa all’ufficio di capitalità sulla Chiesa particolare ” (35). Questa realtà mette in luce un importante aspetto della potestà di giurisdizione dal Successore di Pietro: essendo lui il capo del Collegio Episcopale, l’incorporazione di un Vescovo al Collegio non può prescindere dal suo consenso senza fare violenza alla natura del Collegio stesso. Si manifesta anche così che il Vescovo è principio e fondamento visibile dell’unità nella Chiesa particolare affidata al suo ministero pastorale perché è un membro del Collegio episcopale in comunione con il suo capo, colui che è principio e fondamento dell’unità di tutta la Chiesa (36).
D’altronde, la priorità ontologica della Chiesa universale fa sì che la comunione tra le Chiese non possa essere intesa come conciliarità (37). Infatti, che le Chiese particolari siano porzioni della Chiesa universale non significa che abbiano “prima” e da se stesse la pienezza ecclesiale e “poi” (in più) la comunione con le altre Chiese; esse hanno come elemento essenziale della loro pienezza ecclesiale il primato del Papa e il Collegio episcopale, i quali pur essendo elementi interiori ad ogni Chiesa particolare in quanto tale, non derivano però, come è stato ricordato sopra, dalla particolarità delle Chiese, bensì dall’universalità della Chiesa che li precede e in esse si fa presente (38).
Da questa priorità deriva pure che l’esercizio della potestà del capo del Collegio non è sottomesso all’approvazione dell’Episcopato, sebbene sia sempre un esercizio per la comunione e nella comunione (39). A questo riguardo, è senz’altro positivo il progresso nella comprensione della realtà del Primato verificatosi nell’ambito del dialogo cattolico-ortodosso. Non mancano, da parte ortodossa, coloro che accettano che il Primato d’onore implica una “autorità reale”. Tuttavia spesso non si riesce a superare il concepirlo come primus inter pares, (40) intesa questa espressione nel suo abituale senso debole, anche perché si pone il fondamento del Primato nella comunione tra le Chiese particolari — intese come complete nella loro particolarità (41) —, invece di vederne il fondamento nella realtà della Chiesa universale in quanto ontologicamente previa — nel suo essenziale mistero — ad ogni singola Chiesa particolare (42). In questo contesto sarà sempre necessario sottolineare che la pienezza ed immediatezza con la quale la sacra potestas del Vescovo di Roma raggiunge ogni fedele, non significa in alcun modo estraneità né tantomeno concorrenza rispetto alla sacra potestas di ogni singolo Vescovo (43).
Le caratteristiche essenziali del Primato sono ovviamente immutabili. Invece le forme più convenienti del suo esercizio non possono non dipendere in parte dalle circostanze storiche (44).
 
Considerazioni su nuove possibili forme di esercizio del Primato
Com’è noto la richiesta formulata da Giovanni Paolo II “di trovare una forma di esercizio del Primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova”, (43) ha un’implicazione primariamente — sebbene non esclusivamente — ecumenica. Si tratta di trovare nuove forme che, nel presente, possano favorire innanzitutto il ripristino della piena comunione delle Chiese ortodosse con il Successore di Pietro, così come forme da prospettare per il futuro quando sarà raggiunta la desiderata piena comunione.
Le eventuali nuove forme di esercizio del ministero petrino devono ovviamente essere coerenti con la sua natura teologica. Perciò, è chiaro — ad esempio — che non sarebbe il caso di assumere forme, prassi o strutture politiche, sociologiche, ecc., né forme che siano necessariamente dipendenti da una concezione della Chiesa universale come unione di Chiese particolare attraverso il semplice riconoscimento mutuo, o da una concezione del ministero episcopale inteso come espressione di un’autoorganizzazione del Popolo di Dio che parte dal basso.
Come è noto, è stata avanzata da tempo e da più parti l’idea di prendere come modello l’esercizio del Primato nel primo millennio, perché il periodo storico previo alla rottura dovrebbe essere il punto di riferimento per ricomporre l’unione. In realtà, ciò ” non è sufficiente per poter presentare il primo millennio come modello di esercizio del primato ” (46). Infatti, se con l’espressione ” esercizio del Primato nel primo millennio” si vuole fare riferimento agli effettivi interventi del Romano Pontefice nelle diverse Chiese in quel periodo, la proposta risulta arbitraria e ambigua perché tale esercizio era molto condizionato dai tempi e dai luoghi. Nei posti e nel periodi in cui c’è stata una maggiore facilità di comunicazione con Roma, l’esercizio del Primato si è svolto in modo abituale e frequente nelle Chiese. Inoltre, è ben noto che i fattori politici – molto diversi da quelli di oggi — hanno avuto un influsso talvolta determinante (47). E’ necessario poi non dimenticare che “la Chiesa Cattolica è consapevole di aver conservato, in fedeltà alla Tradizione Apostolica e alla fede dei Padri, il ministero del Successore di Pietro” (48), e questa fedeltà ha trovato espressione anche nelle definizioni dei Concili del secondo millennio — in particolare i Concili II di Lione, Firenze e Vaticano I (49)—, che rappresentano una più profonda comprensione della fede della Chiesa sul Primato, e questa comprensione è in stretto rapporto con le forme storiche del suo esercizio (50). Quindi la prassi del primo millennio cristiano per quanto riguarda l’esercizio del Primato non può essere considerata oggi come modello, senza tener conto dello sviluppo dottrinale sul ministero petrino che ha avuto luogo durante il secondo millennio.
A mio avviso, la proposta di tornare alla prassi del primo millennio non è nemmeno adatta a rispettare la relativa autonomia delle Chiese particolari, intesa non come previa autosufficienza ecclesiale ma come quella legittima diversità, che la Chiesa presieduta dal Successore di Pietro vuole difendere come un prezioso dono di Dio. “Per divina Provvidenza — afferma il Concilio Vaticano II – è avvenuto che varie Chiese, in vari luoghi fondate dagli Apostoli e dai loro successori, durante i secoli si sono costituite in molti gruppi, organicamente uniti, i quali, salva restando l’unità della fede e l’unica divina costituzione della Chiesa universale, godono di una propria disciplina, di un proprio uso liturgico, di un patrimonio teologico e spirituale proprio” (51). Ciò evidenzia che non si può capire la Chiesa come una grande amministrazione uniforme e centralizzata, perché sarebbe contrario all’identità dello stesso ministero petrino, universale e garante della diversità. In particolare, non si può ignorare che nell’Oriente, ” sono sorte, per istituzione della Chiesa, forme di organizzazione ecclesiastica nelle quali si esercita pure un principio di primazia (…). Il sistema patriarcale appartiene alla guida della Provvidenza ordinaria di Dio sulla Chiesa, e reca in sé, dagli inizi, il nesso con la tradizione petrina” (52).
La consapevolezza dell’importante ruolo dei patriarcati nella storia e nella vita presente della Chiesa ha portato Giovanni Paolo II ad affermare, in un discorso rivolto ai Patriarchi cattolici in visita alla sede di Pietro, che ” spetta anzitutto ai Patriarchi orientali cattolici ricercare le modalità del servizio petrino “.” Questo invito ha un particolare fondamento teologico nel nesso del patriarcato con il ministero petrino e sarebbe opportuno aprire una via per dare corso all’esercizio della speciale responsabilità dei Patriarchi nel promuovere la comunione con il Successore di Pietro. In questo senso, potrebbe essere molto utile l’istituzione di una Conferenza periodica dei Patriarchi orientali presieduti dal Papa, in quanto Successore di Pietro ma non in quanto Patriarca d’Occidente. In effetti, il titolo di Patriarca d’Occidente, applicato tradizionalmente al Romano Pontefice, non ha un significato analogo ai titoli dei Patriarchi orientali cattolici. Oltre le funzioni del Papa come Vescovo della Chiesa particolare di Roma, la distinzione tra alcune presunte funzioni a lui proprie come Patriarca d’Occidente e altre proprie del Primato sulla Chiesa universale non risponde alla realtà storica. D’altronde, se tale distinzione volesse significare che alcune delle funzioni che il Papa esercita sulle Chiese dell’Occidente sono necessariamente estranee all’esercizio del Primato universale, si tratterebbe non solo di errore di valutazione storica ma anche di una equivoca concezione sul Primato (54).
Naturalmente, la primazia dei Patriarchi di Oriente rispetto alle eparchie ed esarcati si esercita in comunione con il Primato del Papa la cui potestà è immediata su tutti i fedeli. Perciò, ad esempio, non sarebbe conforme alla natura teologica del Primato proporre che i rapporti dei Vescovi orientali cattolici con il Successore di Pietro abbiano luogo soltanto attraverso il Patriarca e il Sinodo. Se con questa proposta si volesse fare riferimento soltanto all’ordine pratico, vale a dire al modo in cui i Vescovi stabiliscono di fatto i loro rapporti con il Papa attraverso il Patriarca e il Sinodo, allora non ci sarebbero difficoltà di ordine dottrinale (converrebbe comunque prendere gli accorgimenti necessari affinchè non sia oscurato il carattere immediato della potestà del Romano Pontefice su tutti). Ma se la proposta venisse fatta come un’esigenza di contenuto dottrinale, non sarebbe accettabile perché comporterebbe affermare un’appartenenza mediata del Vescovo alla Chiesa universale (attraverso la Chiesa locale). Bisogna ricordare che “non si appartiene alla Chiesa universale in modo mediato, attraverso l’appartenenza ad una Chiesa particolare, ma in modo immediato, anche se l’ingresso e la vita nella Chiesa universale si realizzano necessariamente in una particolare Chiesa”(55). Inoltre, nel caso dei Vescovi, la proposta in questione sembra difficilmente conciliabile sia con il fatto che l’Episcopato è “uno e indiviso”, (56) sia pure con la dottrina secondo la quale il Collegio Episcopale è una realtà teologica previa all’ufficio di presiedere le Chiese particolari (57).
L’esercizio del Primato nelle Chiese ortodosse che ristabilissero la loro piena comunione con Roma potrebbe avere forme diverse da quelle che oggi ha nelle Chiese orientali cattoliche. In ogni caso, non vanno imposte più condizioni di quelle necessario all’esercizio del Primato come servizio all’unità di fede e di comunione.
Invece, ciò che non avrebbe senso nell’ecclesiologia cattolica sarebbe limitare per principio l’intervento del Successore di Pietro a circostanze o problemi straordinari, applicando all’esercizio del Primato nelle Chiese particolari la categoria di sussidiarietà come si applica nell’ambito della società civile, né sarebbe adeguato usare in questo senso la distinzione tra funzioni abituali e funzioni sostitutive o di supplenza riducendo praticamente a queste ultime l’esercizio del ministero petrino (58). Il mistero della comunione nella Chiesa trascende completamente questi schemi. La missione del Primato ha un’entità abituale: quella di porre tutti gli atri di magistero e di governo pastorale che dallo stesso Romano Pontefice siano ritenuti necessari o convenienti per compiere la sua missione di promuovere e garantire l’unità di fede e di comunione nella Chiesa. La missione del Successore di Pietro non è sussidiaria né il suo esercizio si riduce a circostanze eccezionali, soprattutto perché è interiore alla Chiesa particolare e non estranea e tanto meno in concorrenza con la potestà del Vescovo. Nel dialogo ecumenico non si può prospettare che il Papa s’impegni a non usare delle sue prerogative primaziali nei riguardi delle Chiese che si unirebbero a Roma. Sarebbe contraddittorio limitare l’esercizio del Primato in linea di principio, pur ammettendo la sua esistenza (59).
Particolare attenzione è stata data alla nomina dei Vescovi, per la quale ci sono diverse possibili procedure — oltre la nomina diretta da parte del Romano Pontefice —, come ad esempio la conferma di chi è stato legittimamente eletto secondo le consuetudini dei Patriarcati. Nel caso dell’elezione del Patriarca stesso, nelle Chiese patriarcali in comunione con Roma non si richiede la conferma da parte del Successore di Pietro dell’elezione canonica dei Patriarchi, ma lo scambio di lettere di comunione ecclesiastica, secondo la tradizione antica (60). In generale, le eventuali proposte relative alle nomine dei Vescovi — diverse dalla nomina diretta da parte del Papa — oltre il coinvolgimento delle Chiese particolari devono tener presente in ogni caso il previo consenso libero da parte del Successore di Pietro. Il ruolo decisivo del Romano Pontefice nell’elezione dei Vescovi viene, a mio avviso, richiesto sia dall’unità, e indivisibilità del Collegio Episcopale, (61) sia dalla priorità dell’appartenenza al Collegio sulla capitalità nella Chiesa particolare.62 Comunque, la necessaria accettazione delle elezioni dei Vescovi da parte dei Romano Pontefice non va vista come un limite imposto alle Chiese particolari né ai Patriarcati, bensì come una garanzia preziosa della loro reale comunione con la Chiesa universale ed anche della loro indipendenza dalle ingerenze dei poteri politici (63).
La necessità di decentramento delle funzioni di governo e il relativo impulso agli organi locali alla quale risponde, almeno in parte, il principio di sussidiartela nella società civile, si può avvertire anche nella Chiesa, e si riflette in ambito ecumenico. Più volte infatti è stato sottolineato il contrasto tra gli organismi del governo centrale nella Chiesa Cattolica, attraverso i quali il Successore di Pietro esercita una parte del suo ministero, e l’autocefalia delle Chiese ortodosse. Perciò è importante che le iniziative che possano contribuire a preparare il ristabilimento della piena comunione vadano cercate coerentemente con la mutua interiorità tra Chiesa particolare e Chiesa universale. In questo contesto, anche la Curia Romana è oggetto di attenzione, non di rado anche di critiche infondate. Certamente, sempre sarà possibile migliorare il coordinamento al suo interno così come i rapporti tra Curia Romana e Vescovi, affinchè corrisponda ancora meglio al suo essere istrumento con il quale “il Sommo Pontefice è solito trattare le questioni della Chiesa universale, e che Ìn suo nome e con la sua autorità adempie alla propria funzione per il bene e a servizio delle Chiese”(64). In questo senso, da più parti è stato auspicato uno snellimento della Curia Romana. Forse questo sarebbe in effetti utile, ma senza diminuire — a mio avviso — i suoi interventi vincolanti — che si riferiscono in realtà a ben poche materie — affidando ad altri organismi (Università, Accademie, ecc.) attività di tipo informativo, di ricerca, promozionale, ecc.
I contenuti concreti dell’esercizio del Primato ” caratterizzano il ministero petrino nella misura in cui esprimono fedelmente l’applicazione alle circostanze di luogo e di tempo delle esigenze della finalità ultima che gli è propria (l’unità della Chiesa). La maggiore o minore estensione di tali contenuti concreti dipenderà in ogni epoca storica dalla necessitas Ecclesiae. Lo Spirito Santo aiuta la Chiesa a conoscere questa necessitas ed il Romano Pontefice, ascoltando la voce dello Spirito nelle Chiese, cerca la risposta e la offre quando e come lo ritiene opportuno ” (65). In ogni caso, ” è chiaro che solo il Papa ha, come Successore di Pietro, l’autorità e la competenza per dire l’ultima parola sulle modalità di esercizio del proprio ministero pastorale nella Chiesa universale ” (66).
Note
1 Cf. CONC. VATICANO II, Cost. Lumen gentium n. 18; Decr. Unitatis redintegratio, n. 1; PAOLO VI, Es. Ap. Evangelii nuntiandi, 8-XI1-1975, n. 77; GIOVANNI PAOLO II, Enc. Ut unum sint, 25-V-95, n. 98.
2 GIOVANNI PAOLO II, Enc. Ut unum sint, n. 95.
3 Per quanto riguarda gli studi esegetici recenti, cf., ad esempio, J. GNILKA, Il ministero petrino. Fondamentazione del Nuovo Testamento e configurazione nella Chiesa primitiva, in P, HUNERMANN (ed.). Papato ed ecumenismo. Il ministero petrino al servizio dell’unità, EDB, Bologna 1999, pp. 10-21. Sui passi del Vangelo di Matteo, cf. IDEM, Das Matthàusevangelium, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1988, pp-62 ss.; N. CASAI.INI, I misteri della fede. Teologia del Nuovo Testamento, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1991, pp. 612-618 (con ampia bibliografia). Per una discussione dell’interpretazione dei testi, et. R. PESCH, Was an Petrus sichtbar war, ist in den Primat eingegangen, in AA.VV., Il Primato del Successore di Pietro, Atti del Simposio Teologico (Roma, 2/4-XII-1996), Libreria Editrice Vaticana 1998, pp. 22-111. Infine, per una riflessione sui dati della Tradizione e della storia, cf. R. MINNERATH, La tradition dottrinale de la primauté pétrinienne au premier millénaire, in AA.VV., Il Primato del Successore di Pietro, cit., pp.117-143.
4 GIOVANNI PAOLO II, Discorso nell’Udienza generale, 25-XI-1992, n.3.
5 Ibidem, nn. 3-4.
6 Cf. CONC. VATICANO I, Cost. Pastor aeternus. proemio (DS 3051); CONC. VATICANO II, Cost. Lumen gentium, n.23.
7 GIOVANNI PAOLO II, Discorso nell’Udienza generale, 9-XII-1992, n.2.
8 Ibidem.
9 Cf. Ibidem, n.6. GIOVANNI PAOLO II, Discorso nell’Udienza generale, 16-XII-1992, nn.6-7; Enc. Ut unum sint, n. 94.
10 GIOVANNI PAOLO II, Enc. Ut unun sint, n. 97.
11 Cf. G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero. Storia, testo e commento della ” Lumen gentium”, Jaca Book, 5.a ed., Milano 1993, p. 241.
12 Cf. R. MINNERATH, La position de l’Eglise de Rome aux trois premìers siècles, in AA.VV., Il Primato del Vescovo di Roma nel primo millennio. Atti del Symposium storico-teologico (Roma, 9-13-X- 1989), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991, pp. 139-171; M. MACCARRONE, Sedes apostolica Vicarius Petri, in ibidem, pp. 275-362, Cf. anche J. RATZINGER, Primato, episcopato e ” successio apostolica “, in K. RAHNER -J. RATZINGER, Episcopato e Primato, Morcelliana, Brescia 1966, pp. 61 ss.
13 In questo senso, Giovanni Paolo II, dopo aver ricordato le antichissime testimonianze di San Clemente Romano, Sant’Ignazio di Antiochia e Sant’Ireneo di Lione riguardo la sede di Pietro, riassume cosi la peculiare universalità della sua funzione sin dall’inizio; “le altre Chiese non possono non vivere e operare in accordo con essa: l’accordo implica l’unità di fede, di insegnamento e di disciplina, precisamente ciò che è contenuto nella tradizione apostolica. La sede di Roma e dunque il criterio e la misura della autenticità apostolica delle varie Chiese, la garanzia e il principio della loro comunione nella carità universale, il fondamento (kefas) dell’organismo visibile della Chiesa fondata e retta dal Cristo Risorto come Pastore eterno di tutto l’ovile dei credenti” (Discorso nell’Udienza generale, 27-1-1993, n.7).
14 Cf. CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lett. Communionis notio), 28-V-1992, n, 9,
15 CONC. VATICANO II, Decr. Christus Dominus, n. 11- Cf. Cost. Lumen gentium”, n.23.
16 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Vescovi degli Stati Uniti di America, 16-IX-1987, n. 4.
17 Cf. GIOVANNI PAOLO TI, Discorso alla Curia Romana, 20-XII-1990, n.9.
18 “L’essere il ministero del Successore di Pietro interiore ad ogni Chiesa particolare è espressione necessaria di quella fondamentale. mutua interiorità tra Chiesa universale e Chiesa particolare ” (CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FLDE, Lett.. Communionis notio, n. 13).
19 Cf, GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Vescovi degli Stati Uniti d’America, 16-IX-1987,
20 CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lett. Communionis notio, n.9.
21 Ibidem.
22 GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla Curia Romana, 20-XII-1990, n.9.
23 Su questi punti, cf. anche F. OCÀRIZ, Primato di Pietro ed Ecumenismo, in AA.VV., Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, Ed. San Paolo, Roma 2000, pp. 372-383; P. RODRÌGUEZ, La comunion en la Iglesia, in ” Scripta Theologica ” 24 (1992) pp.559-569; J.R. VILLAR, Ecclesiologia y Ecumenismo, Eunsa, Pamplona 1999, pp. 173-196.
24 GIOVANNI PAOLO II, Enc. Ut unum sint, n. 94.
25 Cf. CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Considerazioni su Il Primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa, n. 9. ” II vescovo di Roma, quale capo del collegio episcopale per volontà di Cristo, è il primo araldo della fede, cui spetta il compito di insegnare la verità rivelata e di mostrare le sue applicazioni nel comportamento umano. Egli ha la prima responsabilità della diffusione della fede nel mondo (…). “Egli ha il dovere di difendere la verità della fede, e dunque spetta a lui risolvere tutte le questioni controverse nel campo della fede” (Conc. II di Lione: DS 861)” (GIOVANNI PAOLO II, Discorso nell’Udienza generale, 10-III-93, n. 2).
26 Cf. CONC. VATICANO I, Cost. Pastor aeternus, cap.4 (DS 3065-3068).
27 Cf. ibidem: DS 3073-3074; CONC. VATICANO II, Cost. Lumen gentium, n. 25
28 CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Considerazioni su Il Primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa, cit., n. 11,
29 CONGR. PER LA DOTTRINA DELI.A FEDE, Lett. Communionis notio, n. 14. Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1369.
30 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Motu pr. Apostolos Suos, 21 V-1998, n. 12.
31 Cf. CONC. VATICANO I, Cost. Pastor aeternus, cap.3 (DS 3060-3064); CONC. VATICANO II, Cost. Lumen gentium, n.22.
32 Cf. F. OCÀRIZ, Reazione al testo di M. BUCKLEY, The Primacy and the Episcopate: Towards a Doctrinal Synthesis, in AA.Vv., Il Primato del Successore di Pietro, cit., p. 340.
33 CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Considerazioni su Il Primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa, n. 10.
34 Cf. ibidem, n.7.
35 GIOVANNI PAOLO II, Motu pr. Apostolos Suos, n. 12.
36 Cf. CONC. VATICANO II, Cost. Lumen gentium, n.23,
37 Cf. J. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia 1971, pp. 165-177.
38 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Discorso, 16-1X-1987, n. 4; Discorso, 20-XII-90, n, 9.
39 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Discorso all’Udienza generale, 24-II-1993, n. 3; Motu pr. Astostolos Suos, n. 12.
40 Cf. COMITATO MISTO CATTOLICO-ORTODOSSO IN FRANCIA, Il primato romano nella comunione delle Chiese, Introduzione: in ” Enchiridion oecumenicum “, vol. 4, nn.950-953; COMMISSIONE MISTA PER IL DIALOGO TEOLOGICO TRA LA CHIESA CATTOLICA ROMANA E LA CHIESA ORTODOSSA, Il sacramento dell’ordine nella struttura sacramentale della Chiesa, Valamo 1988, n. 53: in ” Enchiridion oecumenicum “, vol. 3, n. 1864.
41 Cf. COMITATO MISTO CATTOLICO-ORTODOSSO IN FRANCIA, Il primato romano nella comunione delle Chiese, Conclusioni; in “Enchiridion oecumenicum, vol. 4, n.956.
42 Per quanto riguarda il dialogo anglicano – cattolico, sebbene sia molto positivo un certo riconoscimento da parte anglicana del Primato del Romano Pontefice (cf. COMMISSIONE INTERNAZIONALE ANGLICANA-CATTOI.ICO ROMANA (ARCIC), Documenti di Venezia (1976) e di Windsor (1981): “Enchiridion oecumenicum” vol. 1, nn. 77 e 120), rimane però ambiguo il modo di concepire l’esercizio collegiale del Primato. Infatti, secondo i membri anglicani dcll’ARCIC, il Primato si “esercita collegialmente nel contesto della sinodalità, come parte integrante della episkopé, al servizio della comunione universale” (ARCIC, The Gift of Auhority, 1998, n. 52).
43 Cf. CONC. VATICANO T, Cost. Pastor aeternus (DS 3061); CONC. VATICANO II, Cost. Lumen gentium, n.27; GIOVANNI PAOLO II, Enc. Ut unum sint, n.95.
44 Cf. G. COLOMBO, Il Primato petrino tra parola divina e storicità umana, in AA.VV., Il Primato del Successore di Pietro, cit., pp-178-179.
45 GIOVANNI PAOLO II, Enc. Ut unum sint, n. 95.
46 A. GARUTI, Primato del vescovo di Roma e dialogo ecumenico, Pont. Athenaeum Antonianum, Roma 2000, p. 51. L’autore prende in considerazione anche alcuni scritti di K. SCHATZ, L. SARTORI E N. BUX.
47 Cf. P. BATIFFOL, “Cathedra Petri”. Etudes d’Hisfoirs ancienne de l’Eglise, Du Cerf, Paris 1938, pp. 199-214; V. PARLATO. L’ufficio patriarcale nelle Chiese orientali dal IV ai X secolo, CEDAM, Padova, 1969, p.46 (dove l’autore mette in paragone il numero di documenti del Romano Pontefice che riguardano le Chiese di Oriente e di Occidcntc).
48 GIOVANNI PAOLO II, Lettera al Cardinale Joseph Ratzinger, 30-XI-1996 (pubblicata anche nel volume Il Primato del Successore di Pietro, cit., p. 20).
49 Cf. principalmente DS 861, 1307, 3064.
50 Cf. G. LANGEVIN, Synthèse de la tradition doctrinale sur la primauté du Successeur de Pierre durant le second millénaire, inAA.Vv., Il Primato del Successore di Pietro, cit., pp. 147-16S; W. HENN, Historical Theological Synthesis of the Relation Between Primacy and Episcopacy during the Second Millennium, in ibidem, pp. 222-273.
51 CONC. VATICANO II, Cost. I.umen gentium, n.23.
52 CONGR. PBR LA DOTTRINA DELLA FEDE, Considerazioni su Il Primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa, n. 6, Cf. CONC, VATICANO II, Cost. Lumen gentium, n.23; IDEM, DECR. Orientalium Ecclesiarum, nn.7 e 9.
53 GIOVANNI PAOLO II, Discorso, 29-1X-98. Per quanto riguarda il ruolo delle Chiese
orientali cattoliche nell’ecumenismo, cf. D. SALACHAS, L’ecumenismo come condizione per l’identità, in AA.Vv., L’identità delle Chiese orientali cattoliche, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, pp. 151-165.
54 Sull’argomento, Cf. A. GARUTI, Il Papa, Patriarca d’Occidente?, Ed. Francescane, Bologna 1990.
55 CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lett. Communionis notio, n. 10,
56 CONC. VATICANO 1, Cost:. Pastor aeternus, proemio (DS 3051).
57 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Motu pr. Apostolos Suos, n. 12.
58 Cf. CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Considerazioni su Il Primato dei Successore di Pietro nel mistero della Chiesa, cit., nn. 8-12. Cf. Cr. COLOMBO, Tesi per la revisione dell’esercizio del ministero petrino, in “Teologia” 21 (1996) 332.
59 Per quanto riguarda l’interpretazione del canone 34 dei Canoni degli Apostoli (ca 380) da parte ortodossa nell’incontro della Commissione mista per il dialogo teologico cattolico-ortodosso svolte in Valamo in 1988 (cf. SEGRETARIATO PER L’UNITA’ DEI CRISTIANI, Service d’information 68 (1988) 199), vid. il commento di A. GARUTI, Primato del Vescovo di Roma e dialogo ecumenico, cit., p. 106.
60 Cf. CCEO, c. 76.
61 Cf. CONC. VATICANO I, Cost. Pastor aeternus, proemio (DS 3051).
62 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Motu pr. Apostolos Suos, n. 12.
63 Cf. CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lett. Communionis notio, n.8.
64 CIC, c. 360.
65 CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Considerazioni su Il Primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa, n. 12.
66 Ibid., n. 13.