Compendio di Teologia Ascetica e Mistica (883-899)

Di Adolfo Tanquerey. Parte seconda. Le Tre Vie. LIBRO I. La purificazione dell’anima o la via purgativa. CAPITOLO IV. § III. L’accidia o pigrizia. Art. III. L’Avarizia.

§ III. L’accidia o
pigrizia
 883-1.

883. L’accidia o pigrizia si
connette con la sensualità, perchè sorge in sostanza dall’amor del piacere in
quanto ci porta a fuggire lo sforzo o l’incomodo. Vi è infatti in noi tutti una
tendenza al minimo sforzo che intorpidisce o diminuisce la nostra operosità.
Esponiamone: 1° la
natura; 2° la
malizia; 3° i
rimedi.

884.Natura. A) L’accidia
è una tendenza all’ozio o almeno alla negligenza e al torpore
nell’operare.
È talora disposizione morbosa proveniente da
cattivo stato di salute; ma ordinariamente è malattia della volontà che
paventa e rifiuta lo sforzo. L’accidioso vuole schivare ogni pena, tutto ciò che
può turbarne il riposo e indurre qualche fatica. Vero parassita, vive, per
quanto gli è possibile, a spese altrui. Dolce e rassegnato finchè non viene
disturbato, s’arrabbia e incattivisce quando si vuol trarlo dalla sua inerzia.

b) Vi sono vari gradi nell’accidia.
aL’indolente non pone mano al lavoro che con lentezza,
fiacchezza e indifferenza; se fa qualche cosa, la fa male. b) Il
fannullone non rifiuta assolutemente il lavoro, ma indugia, va a zonzo e
ritarda indefinitamente l’affare che aveva accettato. c) Il vero
accidioso o pigro o infingardo non vuol far nulla di
faticoso e mostra spiccata avversione per ogni lavoro serio di corpo e di mente.

C) Quando la pigrizia riguarda gli esercizi di pietà ritiene in
particolar modo
il nome di accidia e consiste in un certo disgusto
alle pratiche spirituali, che induce a farle con negligenza, ad abbreviarle, e
talora anche ad ometterle sotto vani pretesti. È la madre della tiepidezza, di
cui parleremo a proposito della via illuminativa.

885.Malizia. A) A capire
la malizia dell’accidia, bisogna ricordarsi che l’uomo è fatto per il lavoro.
Quando Dio ebbe creato il nostro primo padre, lo pose in un giardino di delizie
perchè lo coltivasse: “ut operaretur et custodiret
illum”
 885-1. L’uomo infatti non è, come Dio, un
essere perfetto; possiede molteplici facoltà che hanno bisogno di operare pre
perfezionarsi: è quindi per lui necessità di natura il lavorare per
coltivar queste facoltà, per provvedere ai bisogni del corpo e dell’anima e
tendere così al proprio fine. La legge del lavoro precede dunque il peccato
originale. Caduto l’uomo nel peccato, il lavoro diventò per lui non solo legge
di natura ma castigo, nel senso che il lavoro gli riesce ora penoso ed è
come mezzo per riparare il peccato; col sudore della fronte dobbiamo mangiare il
nostro pane, il pane dell’intelligenza e il pane che nutrisce il corpo: “in
sudore vultus tui vesceris pane”
 885-2.

Ora a questa doppia legge, naturale e positiva, contravviene l’accidioso;
onde commette un peccato la cui gravità dipende dalla gravità dei doveri
da lui trascurati. a) Quando giunge fino a trascurare i doveri
religiosi necessari alla sua eterna salute o alla sua santificazione, fa
peccato grave. Così pure quando trascura volontariamente, in materia
rilevante, qualcuno dei doveri del suo stato. b) Se poi
questo torpore non gli fa trascurare che doveri, religiosi o civili, di non
molta importanza, il peccato è soltanto veniale. Ma il pendìo è sdrucciolevole
e, se questa indolenza non viene combattuta, presto si aggrava e diventa più
funesta e più colpevole.

886. B) Rispetto alla
perfezione, l’accidia o pigrizia spirituale è uno degli ostacoli più seri
pei funesti suoi effetti.

a) Rende la vita più o meno sterile.. Si può infatti applicare
all’anima quanto la Sacra Scrittura dice del campo dell’uomo pigro:


“Passai accanto al podere di un neghittoso
e presso il vigneto d’un uomo
privo di senno:
ed eccoli pieni di erbacce;
le ortiche ne coprivano la
superficie,
e il muricciolo di pietre giaceva demolito.
A quella vista
io riflettei:
quello spettacolo fu per me una lezione.
Un po’
sonnecchiare, un po’ dormire,
un po’ con le mani in mano per riposare;
e
ti sopraggiunge, come un vagabondo, la miseria
e l’indigenza come un
accattone” 886-1.



È proprio ciò che si trova nell’anima dell’accidioso: invece
delle virtù vi crescono i vizi, e i muri che la mortificazione aveva eretto a
proteggerne la virtù, a poco a poco si sgretolano e preparono la via
all’invasione del nemico, vale a dire del peccato.

887. b) Presto infatto le tentazioni diventano più vigorose e più insistenti: “perchè l’ozio
insegna molta malizia, multam malitiam docuit
otiositas”
 887-1. Per questo vizio e per l’orgoglio rovinò
Sodoma: “Ecco quale fu il delitto di Sodoma: l’orgoglio, l’abbondanza e l’accidioso riposo in cui vivevano le sue donne” 887-2. La mente e il cuore dell’uomo non
possono infatti restare inoperosi: se non si occupano nello studio o in qualche
altro lavoro, vengono subito invasi da una folla di fantasmi, di pensieri, di
desideri e d’affetti; ora, nello stato di natura decaduta, ciò che domina in
noi, quando non le contrastiamo, è la triplice concupiscenza; saranno quindi
pensieri sensuali, ambiziosi, orgogliosi, egoistici, interessati, quelli che
prenderanno il sopravvento nell’anima e la esporranno al
peccato 887-3.

888. C) Si tratta quindi non
solo della perfezione dell’anima ma anche della eterna salvezza. Perchè,
oltre le colpe positive in cui l’ozio ci fa cadere, il solo fatto di non
adempiere gli importanti nostri doveri è sufficiente causa di riprovazione.
Fummo creati per servir Dio e adempiere i doveri del nostro stato, siamo operai
mandati da Dio a lavorar nella sua vigna; ora il padrone non chiede soltanto
agli operai di astenersi dal mal fare, ma vuole che lavorino; se quindi, anche
senza commettere atti positivi contro le leggi divine, noi incrociamo le braccia
invece di lavorare, il Padrone non avrà ragione di rimproverarci, come agli
operai evangelici, il nostro ozio? “quid statis tota die otiosi?”
L’albero sterile, pel solo fatto di non produr frutti, merita di essere tagliato
e gettato al fuoco: “omnis ergo arbor, quæ non facit fructum bonum, excidetur
et in ignem mittetur”
 888-1.

889.Rimedi. A) A guarire
il pigro bisogna prima di tutto inculcargli convinzioni profonde sulla
necessità del lavoro, fargli capire che ricchi e poveri sono soggetti a questa
legge, e che il mancarvi basta ad incorrere l’eterna dannazione. È questa la
lezione che ci dà Nostro Signore nella parabola del fico sterile; per tre anni
viene il padrone a cercarvi frutti: non trovandovene, ordina al vignaiuolo di
atterrarlo: “succide illam, ut quid terram occupat?” 889-1.

Nè si dica: io sono ricco e non ho bisogno di lavorare. — Se non avete
bisogno di lavorare per voi, dovete farlo per gli altri. Ve lo comanda Dio,
vostro padrone: vi diede le braccia, un’intelligenza, un cervello, dei mezzi,
perchè li utilizziate a gloria sua e a bene dei fratelli. Non mancano certo le
opere buone da fare: quanti poveri da soccorrere, quanti ignoranti da istruire,
quanti cuori affranti da consolare, quante grandi imprese da fondare per dare a
chi ne abbisogna pane e lavoro! E volendo farsi una numerosa famiglia, non
bisogna forse penare e faticare per assicurare l’avvenire dei figli? Non si
dimentichi dunque la grande legge della solidarietà cristiana, in virtù della
quale il lavoro dei singoli serve a tutti, mentre la pigrizia nuoce tanto al
bene generale come al particolare.

890. B) Alle convinzioni
conviene aggiungere il continuato e metodico sforzo, applicando le regole
esposte sulla educazione della volontà, n. 812.
E poichè il pigro indietreggia come per istinto davanti allo sforzo, è opportuno
mostrargli che in fin dei conti non vi è uomo più infelice dell’ozioso: perchè,
non sapendo come impiegare o, com’egli dice, ammazzare il tempo,
s’annoia, si disgusta di tutto, e finisce col prendere in orrore la stessa vita.
Non è dunque meglio fare un poco di sforzo, rendersi utile, e procurarsi un poco
di felicità studiandosi di rendere felici quelli che gli stanno intorno?

Fra gli accidioso vi sono di quelli che adoprano una certa attività, ma
unicamente in giuochi, in divertimenti ginnastici, in riunioni mondane. Si
rammenti a costoro che cosa seria è la vita e che si è obbligati a rendersi
utili, cosicchè rivolgano l’attività a campo più nobile e sentano orrore di
essere parassiti. Il matrimonio cristiano, con gli obblighi domestici che porta
seco, è spesso ottimo rimedio: un padre di famiglia sente bisogno di lavorare
per i figli, e di non affidare a stranieri l’amministrazione dei loro beni.

Quello però che non bisogna cessar mai di richiamare, è lo
scopo della vita: 890-1 siamo qui sulla terra, non per vivere da
parassiti, ma per conquistarci, col lavoro e con la virtù, un posto nel cielo. E
Dio continuamente ci ripete: Che fate dunque qui, o pigri? Andate anche voi a
lavorare nella mia vigna. “Quid hic statia tota die otiosi?… Ite et vos in
vineam meam”
 890-2.

ART. III.
L’AVARIZIA 891-1.

L’avarizia si collega con la concupiscenza degli occhi, di cui abbiamo
già parlato, n. 199.
Ne esporremo: 1° la
natura; 2° la
malizia; 3° i
rimedi.

891.Natura. L’avarizia è
l’amor disordinato dei beni della terra. Per mostrare ove sta il
disordine dell’avarizia, bisogna primieramente richiamare lo scopo per
cui Dio diede all’uomo i beni temporali.

A) Lo scopo che Dio si propose è doppio: l’utilità nostra e
quella dei nostri fratelli.

a) I beni della terra ci sono dati per provvedere ai bisogni temporali
dell’uomo, dell’anima e del corpo, per conservar la vita a noi e ai nostri
dipendenti, e per procurarci i mezzi di coltivar l’intelligenza e le altre
nostre facoltà.

Di questi beni: 1) gli uni sono necessari per il presente o per
l’avvenire: è doveroso acquistarli con l’onesto lavoro; 2) gli altri sono
utili per accrescere gradatamente le nostre sostanze, assicurare il
benessere nostro o quello degli altri, contribuire al bene pubblico favorendo le
scienze o le arti. Non è proibito desiderarli per un fine onesto, a patto che si
tenga conto dei poveri e delle opere di beneficenza.

b) Questi beni ci sono dati anche per venire in aiuto dei fratelli che
si trovano nell’indigenza. Siamo quindi, fino a un certo punto, i tesorieri
della Provvidenza,
e dobbiamo disporre del superfluo per soccorrere i
poveri.

892. B) Ci è ora più facile
dire ove sta il disordine nell’amore dei beni della terra.

a) Sta qualche volta nell’intenzione: si desiderano le
ricchezze per se stesse, come fine, o per fini intermedi che uno si fissa come
fine ultimo, per esempio, per procurarsi piaceri e onori. Chi si ferma qui e non
considera la ricchezza come mezzo per conseguir beni superiori, commette una
specie d’idolatria, è il culto del vitello d’oro: non si vive più che pel
denaro.

b) Sta pure nel modo di acquistarli: si cercano avidamente, con
ogni sorta di mezzi, a scapito dei diritti altrui, con danno della salute
propria o di quella degli impiegati, con speculazioni rischiose, con pericolo di
perdere il frutto dei propri risparmi.

c) Sta anche nel modo di usarne: 1) non si spendono che a
malincuore, con spilorceria, perchè si vuole accumularli, a fine di avere
maggior sicurezza, o godere dell’influenza che viene dalla ricchezza;
2) non si dà nulla ai poveri o alle opere buone: capitalizzare, ecco
lo scopo supremo a cui incessantemente si mira. 3) Ci sono di quelli che
giungono ad amare il denaro come un idolo, a riporlo nei forzieri, a palparlo
amorosamente: è il tipo classico dell’avaro.

893. C) Non è generalmente questo
il difetto dei giovani, che, leggieri ancora e imprevidenti, non pensano a
capitalizzare; vi sono però eccezioni tra i caratteri cupi, inquieti,
calcolatori. Si manifesta nell’età matura o nella vecchiaia: sorge infatti
allora la cosiddetta paura di restar senza, fondata talvolta sul timore
di malattie o di accidenti che possono produrre impotenza o incapacità al
lavoro. I celibi, o vecchi scapoli e le zitellone vi sono particolarmente
soggetti, non avendo figli che li possano soccorrere nella vecchiaia.

894. D) La civiltà moderna
sviluppò un’altra forma dell’insaziabile amore delle ricchezze, la
plutocrazia, la sete di diventar milionari o miliardari, non già per
assicurar l’avvenire a sè o ai figli, ma per acquistar quell’autorità
dominatrice
che viene dalle ricchezze. Quando uno può disporre di somme
enormi, gode grandissima autorità, esercita un potere spesso più efficace di
quello dei governanti, è re del ferro, dell’acciaio, del petrolio, della
finanza, e comanda a Sovrani e a popoli. Questa signoria dell’oro degenera
spesso in intollerabile tirannia.

895.Sua malizia. A)
L’avarizia è segno di diffidenza verso Dio, che promise di vigilare su
noi con paterna sollecitudine, e di non lasciarci mancar mai del necessario,
purchè abbiamo fiducia in lui. C’invita a considerare gli uccelli del cielo che
non seminano nè mietono, i gigli del campo che non lavorano nè filano, non certo
per animarci alla pigrizia, ma per calmare le nostre ansie e invitarci alla
confidenza nel Padre celeste 895-1. Ora l’avaro, in cambio di porre la
confidenza in Dio, la ripone nella copia delle ricchezze e fa ingiuria a Dio
diffidando di lui: “Ecce homo qui non posuit Deum adjutorem suum, sed
speravit in multitudine divitiarum suarum et prævaluit in vanitate
sua”
 895-2. Diffidenza che è accompagnata da
eccessiva confidenza in sè e nella propria attività: uno vuol essere la
provvidenza propria
e così si cade in una specie d’idolatria, facendo
dell’oro il proprio Dio. Ora nessuno può servire nello stesso tempo due padroni,
Dio e la ricchezza: “non potestis Deo servire et
mammonæ”
 895-3.

Questo peccato è dunque di natura sua grave per le ragioni ora
indicate; lo è pure quando fa ledere doveri gravi: di giustizia, pei
mezzi fraudolenti di cui uno si serve ad acquistare e ritener la ricchezza; di
carità, quando non si fanno le limosine necessarie; di religione,
quando uno si lascia talmente sopraffar dagli affari da lasciar da banda i
doveri religiosi. — Ma è peccato soltanto veniale quando non ci fa
contravvenire ad alcuna delle grandi virtù cristiane, compresi i doveri verso
Dio.

896. B) Rispetto alla
perfezione, l’amore disordinato delle ricchezze è ostacolo gravissimo.

a) È passione che tende a soppiantar Dio nel nostro cuore:
questo cuore, tempio di Dio, è invaso da ogni sorta di desideri affannosi per le
cose della terra, di inquietudini, di opprimenti pensieri. Ora, per unirsi a
Dio, bisogna vuotare il cuore di ogni creatura e di ogni affannosa cura delle
cose terrene; perchè Dio vuole “tutta la mente, tutto il cuore, tutto il tempo e
tutte le forze delle meschine sue creature” 896-1. Bisogna vuotarlo soprattutto di
superbia: ora l’affetto alle ricchezze fomenta la superbia perchè ci fa riporre
maggior fiducia nelle ricchezze che in Dio.

Attaccare il cuore al denaro è quindi mettere ostacolo all’amor di Dio;
perchè là ov’è il nostro tesoro, ivi pure è il nostro cuore: “ubi thesaurus
vester, ibi et cor vestrum erit”
. Distaccarnelo è aprire a Dio la porta del
cuore: l’anima spoglia di ricchezze è ricca di Dio: toto Deo dives est.

b) L’avarizia conduce pure all’immortificazione e alla sensualità:
quando uno ha denaro e l’ama, vuol goderne e procurarsi molti piaceri; o,
se si priva dei piaceri, attacca il cuore al denaro. Nell’uno e nell’altro caso
è idolo che ci allontana da Dio. Conviene quindi combattere questa trista
inclinazione.

897.Rimedi. A) Il grande
rimedio è la convinzione profonda, fondata sulla ragione e sulla fede, che le
ricchezze non sono fine, ma mezzi che la Provvidenza ci dà per provvedere
ai bisogni nostri e a quelli dei nostri fratelli; che Dio ne resta sempre
Supremo Padrone; che noi non ne siamo, a dir vero, che amministratori e che un
giorno ne dovremo render conto al Giudice Supremo. — Ma poi sono beni passeggeri che non ci potremo portar dietro nell’altra vita, ove del
resto non hanno corso; e, se abbiamo senno, capitalizzeremo pel cielo e non per
la terra: “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove la ruggine e la tignuola
corrodono e dove i ladri forano i muri e rubano: procurate di accumularvi tesori
nel cielo, dove la ruggine e la tignuola non corrodono e dove i ladri non forano
i muri nè rubano” 897-1.

B) A meglio distaccarsene, il mezzo più efficace è di depositare i
propri beni sulla banca del paradiso
facendone larga parte ai poveri e alle
opere di beneficenza. Chi dà ai poveri presta a Dio, e riceve il centuplo anche
sulla terra con la consolazione di far dei felici attorno a sè, ma
principalmente in cielo dove Gesù, considerando come dato a sè ciò che fu dato
al minimo dei suoi, si farà premura di restituire in beni imperituri i beni
temporali che avremo sacrificati per lui. I savi quindi sono coloro che
cambiano i tesori di quaggiù con quelli del cielo. Cercar Dio e la santità, ecco
in che consiste la prudenza cristiana. “Cercate prima di tutto il regno di Dio e
la sua giustizia, e tutto ciò vi sarà dato per giunta. Quærite primum regnum
Dei et justitiam ejus; et hæc omnia adjicientur vobis”
 897-2.

898. C) I perfetti
vanno anche più oltre: vendono tutto per darlo ai poveri o metterlo in comune,
entrando in qualche comunità. — Si può anche, conservando i capitali, spogliarsi delle rendite, non ne usando che secondo i consigli d’un savio
direttore. A questo modo, pur restando nello stato in cui la Provvidenza ci ha
posti, si pratica il distacco di mente e di cuore.

CONCLUSIONE.

899. La lotta dunque contro i sette
peccati capitali finisce così di svellere in noi quelle cattive tendenze che
nascono dalla triplice concupiscenza. È vero che ce ne resterà sempre qualcuna
di queste tendenze, per esercitarci nella pazienza e richiamarci alla diffidenza
di noi stessi; ma saranno meno pericolose e noi, appoggiati sulla grazia di Dio,
ne trionferemo più facilmente. È vero che, non ostante i nostri sforzi, le
tentazioni ci sorgeranno ancora nell’anima, ma per darci occasione di nuove
vittorie.

NOTE

883-1 S. Tommaso, IIª
IIæ, q. 35; De Malo, q. II; Natale Alessandro, op.
cit.
, p. 1148-1170; Melchior Cano, Victoire sur soi-même,
c. X; G. Faber, Progresso etc, c. XIV (Salesiana, Torino); Laumonier,
op.
cit.
, c. III; Vuillermet, Soyez des hommes, Parigi, 1908,
XI, p. 185.

885-1 Gen., II, 15.

885-2 Gen., III, 19.

886-1 Prov., XXIV, 30-34. La
versione è tolta da “I libri poetici della Bibbia tradotti dai testi
originali e annotati dal P. A. Vaccari S. J.”;
è il secondo
volume della preziosa versione edita dall’Istituto Biblico di Roma.

887-1 Eccli., XXXIII, 29.

887-2 Ezech., XVI, 49.

887-3 Melchior
Cano,
La victoire sur soi-même, c. X.

888-1 Matth., III, 10.

889-1 Luc., XIII, 7.

890-1 Ollé-Laprune, Il
valore della vita.


890-2 Matth., XX, 6, 8.

891-1 S. Tommaso, IIª
IIæ, q. 118; de Malo, q. 113; Melchior Cano, op.
cit.
, c. XII-XIII; Massillon, Discorsi sinodali,
L’avarizia dei sacerdoti; Monsabré, Ritiri pasquali, 1892-1894:
Gli idoli, la ricchezza; Laumonier, op.
cit.
, c. VIII.

895-1 Matth., VII, 24-34.

895-2 Ps. LI, 9.

895-3 Matth., VI, 24.

896-1 J. J. Olier, Introd.
aux vertus,
ch. II, Ire Sect.

897-1 Matth., VI, 19-20,

897-2 Matth., VI, 33.

Quest’edizione digitale preparata da Martin Guy <martinwguy@yahoo.it>.

Ultima revisione: 2 febbraio 2006.