Compendio di Teologia Ascetica e Mistica (310-327)

Adolfo Tanquerey. PARTE PRIMA. I principii. Capitolo III. Perfezione della vita cristiana. § I. L’essenza della perfezione consiste nella carità.
Le prove della tesi. CONCLUSIONE. § II. La carità sulla terra suppone il sacrificio.

§ I. L’essenza della perfezione consiste
nella carità.


310.   Spieghiamo anzitutto il
senso della tesi.
L’amore di Dio e del prossimo, di cui trattiamo, è
soprannaturale nel suo oggetto come nel suo motivo e nel
suo principio. Il Dio che noi amiamo è il Dio manifestatoci dalla
rivelazione, il Dio della Trinità; e l’amiamo perchè la fede ce lo mostra
infinitamente buono e infinitamente amabile; l’amiamo con la
volontà
perfezionata dalla virtù della carità e aiutata dalla
grazia attuale. Non è dunque un amore di sensibilità; è vero che,
essendo l’uomo composto d’anima e di corpo, spesso si mescola ai nostri più
nobili affetti un elemento sensibile; ma un tal sentimento manca talora
intieramente, e in ogni caso è del tutto accessorio. L’essenza stessa dell’amore
è la dedizione, è la volontà ferma di darsi e, occorrendo, d’immolarsi
intieramente per Dio e per la sua gloria, di preferire il suo beneplacito al
nostro e a quello delle creature.

311.   Conviene dire altrettanto,
salve le proporzioni, dell’amor del prossimo. In lui amiamo Dio, un’immagine, un
riflesso delle sue divine perfezioni; il motivo quindi che ce lo fa amare è la
bontà divina in quanto è manifestata, espressa, irradiata nel prossimo; o, in
parole più intelligibili, noi vediamo e amiamo nei nostri fratelli un’anima
abitata dallo Spirito Santo, ornata della grazia divina, riscattata dal sangue
di Gesù Cristo; e amandola, ne vogliamo il bene soprannaturale, lo spirituale
perfezionamento, la salute eterna.

Non vi sono quindi due virtù di carità, l’una verso Dio e l’altra verso il
prossimo; ve n’è una sola che abbraccia insieme Dio amato per se stesso e il
prossimo amato per Dio.

Con queste nozioni ci sarà facile intendere come la perfezione consiste
proprio nella virtù della carità.

Le prove della tesi.

312.   1° Interroghiamo la
S. Scrittura. A) Nel Vecchio come nel Nuovo Testamento, ciò che
domina e compendia tutta la Legge è il gran precetto della carità, carità verso
Dio e carità verso il prossimo. Quindi, quando un dottore della legge domanda a
Nostro Signore che cosa bisogna fare per acquistare la vita eterna, il divin
Maestro gli risponde soltanto: Che cosa dice la legge? E il dottore pronto gli
cita il testo del Deuteronomio: “Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il cuore,
con tutta la tua anima, con tutte le tue forze, con tutta la tua mente, e il
prossimo tuo come te stesso: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo et
ex tota anima tua et ex omnibus viribus tuis et ex omni mente tua, et proximum
tuum sicut teipsum.
E Nostro Signore l’approva dicendogli: “Hoc fac et
vives”
 312-1. Aggiunge altrove che questo doppio
precetto dell’amor di Dio e dell’amor del prossimo costituisce la legge e i
Profeti 312-2. Ed è ciò che sotto altra forma dichiara
S. Paolo, quando, dopo aver rammentati i principali precetti del Decalogo,
aggiunge che la pienezza della legge è l’amore: “Plenitudo legis
dilectio”
 312-3. Così l’amor di Dio e del prossimo è
nello stesso tempo la sintesi e la pienezza della Legge. Ora la perfezione
cristiana non può essere che l’adempimento perfetto ed intero della Legge;
perchè la Legge è ciò che Dio vuole, e che cosa v’è di più perfetto della santa
volontà di Dio?

313.   B) Vi è un’altra prova
tratta dalla dottrina di S. Paolo sulla carità nel cap. XIIIº
della Iª Lettera ai Corinti; con lirico linguaggio Paolo vi descrive
l’eccellenza della carità, la sua superiorità sui carismi o sulle grazie
gratisdate, sulle altre virtù teologali, la fede e la speranza; e mostra ch’essa
compendia e contiene in modo eminente tutte le virtù, che è anzi il complesso di
queste virtù: “caritas patiens est, benigna est; caritas non æmulatur, non
agit perperam, non inflatur, non est ambitiosa, non quærit quæ sua sunt, non
irritatur, non cogitat malum…”;
e in ultimo aggiunge che i carismi
passeranno, che la fede e la speranza spariranno, ma che la carità è eterna. Non
è questo un insegnare che non solo la carità è la regina e l’anima delle virtù,
ma che è pur così eccellente da bastare a rendere un uomo perfetto,
comunicandogli tutte le virtù?

314.   C) S. Giovanni,
l’apostolo del divino amore, ce ne dà la fondamentale ragione. Dio, egli dice, è
carità, “Deus caritas est”; è questa, a così dire, la sua nota
caratteristica. Se dunque vogliamo somigliar a lui ed essere perfetti come il
Padre celeste, bisogna che noi amiamo lui come egli ha amato noi “quoniam
prior ipse dilexit nos”
 314-1; e non potendo amar lui senza amar pure
il prossimo, dobbiamo amare questo caro prossimo fino a sacrificarci per lui,
“et nos debemus pro fratribus animas ponere”: “Carissimi, amiamoci l’un
l’altro, perchè l’amore viene da Dio, e chi ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi
non ama, non ha conosciuto Dio, perchè Dio è amore… Or questo amore sta in ciò
che non fummo noi ad amar Dio, ma egli il primo amò noi e mandò il suo Figliuolo
vittima di propiziazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amati in
tal guisa, dobbiamo noi pure amarci l’un l’altro… Dio è amore e chi sta
nell’amore sta in Dio e Dio in lui” 314-2. Si può dire in modo più chiaro che tutta
la perfezione consiste nell’amor di Dio e del prossimo per Dio?

315.   2° Interroghiamo la
ragione
illuminata dalla fede: se consideriamo sia la natura della
perfezione
sia la natura della carità, arriviamo alla stessa
conclusione.

A) Abbiamo detto che la perfezione d’un essere consiste nel conseguire
il proprio fine o nell’avvicinarsegli quanto più è possibile (n. 306).
Ora il fine dell’uomo nell’ordine soprannaturale è Dio eternamente posseduto con
la visione intuitiva e con l’amore beatifico; sulla terra ci avviciniamo a
questo fine vivendo già in unione intima con la SS. Trinità che vive in noi
e con Gesù mediatore necessario per andare al Padre. Quanto più dunque siamo
uniti a Dio, ultimo nostro fine e fonte della nostra vita, tanto più siamo
perfetti.

316.   Or qual è tra le virtù
cristiane la più unificante, quella che unisce l’anima nostra
intieramente a Dio, se non la divina carità? Le altre virtù ci preparano
a questa unione, o anche a lei ci iniziano, ma non possono
compierla.
Le virtù morali, prudenza, fortezza, temperanza, giustizia, etc.,
non ci uniscono direttamente a Dio, ma servono solo a sopprimere o
diminuire gli ostacoli che ce ne allontanano e ad avvicinarci a Dio
conformandoci all’ordine; così la temperanza, combattendo lo smoderato uso del
piacere, attenua uno dei più violenti ostacoli all’amor di Dio; l’umiltà,
allontanando l’orgoglio e l’amor proprio, ci predispone alla pratica della
divina carità. Inoltre queste virtù, facendoci praticare l’ordine ossia la
giusta misura, sottomettono la nostra volontà a quella di Dio e ci avvicinano a
lui. Le virtù teologali poi distinte dalla carità, ci uniscono
certamente a Dio, ma in modo incompleto. La fede ci unisce a Dio,
infallibile verità, e ci fa vedere le cose alla luce di Dio; ma è compatibile
col peccato mortale che ci separa da Dio. La speranza ci eleva a Dio, in
quanto è cosa buona per noi, e ci fa desiderare i beni del cielo, ma può
sussistere con colpe gravi che ci allontanano dal nostro fine.

317.   La sola carità ci unisce
intieramente a Dio. Suppone la fede e la speranza ma le oltrepassa: prende
tutta quanta l’anima, intelligenza, cuore, volontà, attività, e la dà a
Dio senza riserva. Esclude il peccato mortale, che è il nemico di Dio, e
ci fa godere della divina amicizia: “Si quis diligit me, et Pater meus
diliget eum”
 317-1. Ora l’amicizia è unione, è fusione di
due anime in una sola: cor unum et anima una… unum velle, unum nolle;
completa unione di tutte le nostre facoltà: unione della mente, che fa
che il nostro pensiero si modelli su quello di Dio; unione della volontà,
che ci fa abbracciare la volontà di Dio come fosse nostra; unione del
cuore, che ci stimola a darci a Dio come Egli si dà a noi, dilectus
meus mihi et ego illi:
unione delle forze attive, onde Dio mette a
servizio della nostra debolezza la divina sua potenza per aiutarci a eseguire i
nostri buoni disegni. La carità ci unisce dunque a Dio, nostro fine, a Dio
infinitamente perfetto, e costituisce quindi l’elemento essenziale della nostra
perfezione.

318.   B) Studiando la
natura della carità, arriviamo alla stessa conclusione: come infatti
dimostra S. Francesco di Sales, la carità racchiude tutte le virtù e
dà loro anzi una speciale perfezione 318-1.

a) Racchiude tutte le virtù. La perfezione consiste, com’è
chiaro, nell’acquisto delle virtù: chi le possiede tutte, in un grado non solo
iniziale ma elevato, è certamente perfetto. Ora chi possiede la carità possiede
tutte le virtù e le possiede nella loro perfezione: possiede la fede,
senza cui non si può conoscere ed amare l’infinita amabilità di Dio; e la
speranza, che, ispirandoci la fiducia, ci conduce all’amore; e tutte le
virtù morali, per esempio, la prudenza, senza cui la carità non
potrebbe nè conservarsi nè crescere; la fortezza, che ci fa trionfare
degli ostacoli che si oppongono alla pratica della carità; la temperanza,
che doma la sensualità, implacabile nemica dell’amor di Dio.

Anzi, aggiunge S. Francesco di Sales, “il grande Apostolo non
dice solo che la carità ci dà la pazienza, la benignità, la costanza, la
semplicità, ma dice ch’essa stessa è paziente, benigna,
costante” 318-2, perchè contiene la perfezione di tutte
le virtù.

319.   b) Anzi dà loro una
perfezione e un valore speciale, perchè è, secondo l’espressione di
S. Tommaso 319-1, la forma di tutte le virtù.
“Tutte le virtù separate dalla carità sono molto imperfette, perchè non possono
senza di lei giungere al loro fine che è di rendere l’uomo felice… Non dico
che senza la carità non possano nascere e anche progredire; ma che abbiano tal
perfezione da meritare il titolo di virtù fatte, formate e compite, questo
dipende dalla carità, che dà loro la forza di volare a Dio, e raccogliere dalla
sua misericordia il miele del vero merito e della santificazione dei cuori in
cui si trovano. La carità è tra le virtù come il sole tra le stelle:
distribuisce a tutte la loro luce e la loro bellezza. La fede, la speranza, il
timor di Dio e la penitenza, vengono ordinariamente nell’anima prima di lei a
prepararle la dimora; e giunta che è, la ubbidiscono e la servono come tutte le
altre virtù, ed ella le anima, le adorna e le avviva con la sua
presenza” 319-2. In altri termini, la carità, orientando
direttamente l’anima nostra verso Dio, perfezione somma ed ultimo fine, dà pure
a tutte le altre virtù che vengono a porsi sotto il suo impero, lo stesso
orientamento e quindi lo stesso valore. Così un atto d’obbedienza e di umiltà,
oltre al proprio valore, riceve dalla carità un valore assai più grande quando è
fatto per piacere a Dio, perchè allora diventa un atto di amore, cioè un
atto della più perfetta tra le virtù. Aggiungiamo che quest’atto diventa più
facile e più attraente: obbedire e umiliarsi costano molto alla
orgogliosa nostra natura, ma il pensiero che, praticando questo atti, si ama Dio
e se ne procura la gloria, li rende singolarmente facili.

Così dunque la carità è non solo la sintesi ma l’anima di tutte
le virtù, e ci unisce a Dio in modo più perfetto e più diretto delle altre; è
quindi lei quella che costituisce l’essenza stessa della perfezione.

CONCLUSIONE.

320.   Poichè l’essenza della
perfezione consiste nell’amor di Dio, ne viene che l’accorciatoia per
arrivarvi è d’amar molto, d’amare con generosità ed intensità, e principalmente
di amare con amor puro e disinteressato. Ora noi amiamo Dio non solo quando
recitiamo un atto di carità ma anche quando facciamo la sua volontà o quando
compiamo un dovere sia pur minimo per piacergli. Ognuna quindi delle nostre
azioni, per quanto volgare ella sia in se stessa, può essere trasformata in un
atto di amore e farci avanzare verso la perfezione. Il progresso sarà tanto più
reale e più rapido, quanto più intenso e più generoso sarà quest’amore e quindi
quanto più il nostro sforzo sarà energico e costante; perchè ciò
che conta agli occhi di Dio è la volontà, è lo sforzo, indipendentemente da ogni
emozione sensibile.

E poichè l’amore soprannaturale del prossimo è anch’esso un atto d’amor di
Dio, tutti i servizi che rendiamo ai nostri fratelli, vedendo in loro un
riflesso delle divine perfezioni, o, ciò che torna lo stesso, vedendo in loro
Gesù Cristo, diventano tutti atti d’amore che ci fanno avanzare verso la
santità. Amare dunque Dio e il prossimo per Dio, ecco il segreto della
perfezione, purchè su questa terra vi si aggiunga il sacrificio.

§ II. La carità sulla terra suppone il
sacrificio.


321.   In paradiso ameremo senza
bisogno di immolarci, ma sulla terra la cosa corre altrimenti. Nello stato
attuale di natura decaduta ci è impossibile di amare Dio con amore vero
ed effettivo senza sacrificarci per Lui.

È ciò che risulta da quanto abbiamo detto più sopra, ai n. 74-75,
sulle tendenze della natura corrotta che restano nell’uomo rigenerato. Noi non
possiamo amar Dio senza combattere e mortificare queste tendenze; è lotta che
comincia col primo svegliarsi della ragione e termina solo con l’ultimo respiro.
Vi sono, è vero, momenti di sosta, in cui la lotta è meno viva; ma anche allora
non possiamo disarmare senza esporci ai contrattacchi del nemico. È un fatto
provato dalla testimonianza della Sacra Scrittura.

La Sacra Scrittura ci dichiara apertamente la necessità assoluta
del sacrificio o dell’abnegazione per amar Dio e il prossimo.

322.   A) A tutti i suoi
discepoli rivolge Nostro Signore questo invito: “Chi vuol seguir me,
rinneghi sè stesso, prenda la sua croce e mi segua: “Si quis vult post me
venire, abnegat semetipsum, tollat crucem suam et sequatur
me
 322-1“. Per seguire Gesù ed amarlo, è
condizione essenziale il rinunziare a sè stesso, cioè alle cattive tendenze
della natura, all’egoismo, all’orgoglio, all’ambizione, alla sensualità, alla
lussuria, all’amore disordinato delle comodità e delle ricchezze; è il portare
la propria croce, accettare i patimenti, le privazioni, le umiliazioni, i
rovesci di fortuna, le fatiche, le malattie, in una parola tutte quelle croci
provvidenziali che Dio ci manda per provarci, per rassodarci nella virtù e
facilitarci l’espiazione delle colpe. Allora, e allora soltanto, si può essere
suoi discepoli e camminare per le vie dell’amore e della perfezione.

Gesù conferma questa lezione col suo esempio. Egli che era venuto dal
cielo espressamente per mostrarci il cammino della perfezione, non tenne altra
via che quella della croce: Tota vita Christi crux fuit et martyrium. Dal
presepio al Calvario è una lunga serie di privazioni, d’umiliazioni, di pene, di
fatiche apostoliche, coronate dalle angoscie e dalle torture della dolorosa sua
passione. È il commento più eloquente del “Si quis vult venire post me”;
se ci fosse stata altra via più sicura, ei ce l’avrebbe mostrata, ma sapendo che
non c’era, tenne quella per trarci a seguirlo: “Quando sarò elevato da terra,
attirerò a me tutti gli uomini: “Et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia
traham ad me ipsum
 322-2“. Così l’intesero gli Apostoli che ci
ripetono, con S. Pietro, che se Cristo patì per noi, lo fece per trarci
alla sua sequela: “Christus passus est pro nobis, vobis relinquens exemplum
ut sequamini vestigia ejus
 322-3“.

323.   B) Tal è pur
l’insegnamento di S. Paolo: per lui la perfezione cristiana consiste
nello spogliarsi dell’uomo vecchio e rivestirsi del nuovo, “exspoliantes vos
veterem hominem cum actibus suis et induentes novum
 323-1“. Or l’uomo vecchio è il complesso delle
cattive tendenze ereditate da Adamo, è la triplice concupiscenza che bisogna
combattere e infrenare con la pratica della mortificazione. Dice quindi
nettamente che coloro che vogliono essere discepoli di Cristo devono
crocifiggere i loro vizi e i loro cattivi desideri: “Qui sunt Christi, carnem
suam crucifixerunt cum vitiis et concupiscentiis
 323-2“. È condizione essenziale, tanto ch’egli
stesso si sente obbligato a castigare il suo corpo e a reprimere la
concupiscenza per non rischiare di essere riprovato: “Castigo corpus meum et
in servitutem redigo, ne forte, cum aliis prædicaverim, ipse reprobus
efficiar”
 323-3.

324.   C) S. Giovanni,
l’apostolo dell’amore, non è meno chiaro e netto: insegna che, per amar Dio,
bisogna osservare i comandamenti e combattere la triplice concupiscenza
che regna da padrona nel mondo; e aggiunge che se si ama il mondo e ciò che è
nel mondo, cioè la triplice concupiscenza, non si può possedere l’amor di Dio:
“Si quis diligit mundum, non est caritas Patris in
eo”
 324-1. Ora per odiare il mondo e le sue
seduzioni, è chiaro che bisogna praticare lo spirito di sacrificio, privandosi
dei piaceri cattivi e pericolosi.

325.   2° Ed è del resto necessaria
conseguenza dello stato di natura decaduta qual l’abbiamo descritto al n. 74,
e della triplice concupiscenza che dobbiamo combattere, n. 193 ss.
È impossibile infatti amar Dio e il prossimo senza sacrificar generosamente ciò
che si oppone a questo amore. Ora, come abbiamo dimostrato, la triplice
concupiscenza s’oppone all’amor di Dio e del prossimo; bisogna quindi
combatterla senza tregua e pietà, se vogliamo progredire nella carità.

326.   Rechiamo qualche esempio. I
nostri sensi esterni corrono avidamente verso tutto ciò che li solletica
e mettono in pericolo la fragile nostra virtù. Che fare per resistervi? Ce lo
dice Nostro Signore coll’energico suo linguaggio: “Se il tuo occhio destro è per
te occasione di caduta, cavalo e gettalo via da te: è meglio per te che perisca
uno dei tuoi membri, anzichè tutto il tuo corpo venga gettato
nell’inferno” 326-1. Il che significa che bisogna saper
staccare con la mortificazione gli occhi, le orecchie, tutti i sensi da ciò che
è occasione di peccato; altrimenti non c’è nè salvezza nè perfezione.

Lo stesso si dica dei nostri sensi interni, specialmente della
fantasia e della memoria; chi non sa a quali pericoli ci esponiamo se non ne
reprimiamo sul nascere i traviamenti?

Le stesse nostre facoltà superiori, l’intelligenza e la
volontà,
sono soggette a molte deviazioni, alla curiosità, all’indipendenza,
all’orgoglio; quanti sforzi non sono necessari, quante lotte sempre rinascenti
per tenerle sotto il giogo della fede e dell’umile sottomissione alla volontà di
Dio e dei suoi rappresentanti!

Dobbiamo dunque confessare che, se vogliamo amar Dio ed il prossimo per Dio,
bisogna saper mortificare l’egoismo, la sensualità, l’orgoglio, l’amore
disordinato delle richezze, onde il sacrifizio diventa necessario come
condizione essenziale dell’amor di Dio sulla terra.

È questo in sostanza il pensiero di S. Agostino quando dice: “Due amori
hanno fatto due città: l’amor di sè spinto fino al disprezzo di Dio ha fatto la
città terrestre; l’amor di Dio spinto fino al disprezzo di sè ha fatto la città
celeste” 326-2. Non si può, in altre parole, amar
veramente Dio che disprezzando se stesso, cioè disprezzando e combattendo le
cattive tendenze. In quanto a ciò che vi è di buono in noi, bisogna esserne
grati al primo suo autore e coltivarlo con sforzi incessanti.

327.   La conclusione che
logicamente ne viene è che, se per essere perfetti bisogna moltiplicare gli atti
d’amore, non è meno necessario moltiplicare gli atti di sacrificio,
poichè sulla terra non si può amare che immolandosi. Del resto si può dire che
tutte le nostre opere buone sono insieme atti d’amore e atti di sacrificio: atti
di sacrificio in quanto ci distaccano dalle creature e da noi stessi, atti di
amore in quanto ci uniscono a Dio. Resta quindi da vedere in che modo si possano
conciliare insieme questi due elementi.

NOTE

309-1 Sum. theol., IIª IIæ, q. 184, a. 3; cfr. De
perfectione vitæ spiritualis,
c. I, V-VI.

312-1 Luc., X, 25-29; cfr. Deut., VI, 5-7.

312-2 Matth., XXII, 39-40.

312-3 Rom., XIII, 10.

314-1 I Joan., III, 16; IV, 10.

314-2 Iª Lettera di S. Giovanni, IV, 7-16. Questa lettera è
da leggersi tutta.

317-1 Joan., XIV, 23.

318-1 Trattato dell’amor di Dio, l. XI, c. 8.

318-2 I Cor., XIII, 4.

319-1 Sum. theol., IIª IIæ, q. 23, a. 8.

319-2 S. Fr. di Sales, l. c., c. 9.

322-1 Matth., XVI, 24; cfr. Luc., IX, 23. — Si veda
il commentario del B. Grignion di Montfort, Lettera circolare agli
Amici della Croce,
Roma, 1909.

322-2 Joan., XII, 32.

322-3 I Petr., II, 21.

323-1 Col., III, 9.

323-2 Galat., V, 24.

323-3 I Cor., IX, 27.

324-1 I Joan., II, 15.

326-1 Matth., V, 29.

326-2 De civitate Dei, XIV,
28: “Fecerunt itaque civitates duas amores duo: terrenam scilicet amor sui usque
ad contemptum Dei, cælestem vero amor Dei usque ad contemptum sui”.

Quest’edizione digitale preparata da Martin Guy <martinwguy@yahoo.it>.

Ultima revisione: 2 marzo 2006.