Compendio di Teologia Ascetica e Mistica (1099-1126)

Di Adolfo Tanquerey. Parte seconda. Le Tre Vie. LIBRO II. La via illuminativa o lo stato delle anime proficienti. CAPITOLO II. Delle virtù morali. Art. IV. La virtù della Temperanza. § I. Della Castità. I. Della castità coniugale. II. Della continenza o del celibato. 1° L’umiltà custode della castità. 2° La mortificazione custode della castità. 3° L’applicazione agli studi e ai doveri del proprio stato. 4° L’amore ardente per Gesù e per la sua Santa Madre.

ART. IV. LA VIRTÙ DELLA
TEMPERANZA 1099-1.

Se la fortezza è necessaria a reprimere il timore, non meno necessaria è la
temperanza a moderare quell’inclinazione al piacere che così facilmente ci
allontana da Dio.

1099.   La temperanza è una
virtù
morale soprannaturale che modera l’inclinazione al piacere sensibile, massime ai
diletti del gusto e del tatto, contenendolo nei limiti dell’onestà.


Il suo oggetto è di moderare ogni diletto sensibile, ma specialmente
quello che accompagna le due grandi funzioni della vita organica: il mangiare e
il bere che conservano la vita dell’individuo; e gli atti che hanno per fine la
conservazione della specie. La temperanza ci fa usar del piacere per un fine
onesto e soprannaturale, moderandone quindi l’uso secondo le prescrizioni della
ragione e della fede. E poichè il piacere è seducente e ci trascina facilmente
oltre i giusti limiti, la temperanza c’induce a mortificarci anche in certe cose
lecite, onde assicurar l’impero della ragione sulla passione.

Tali sono i principii con cui risolveremo le questioni particolari.

Avendo già sufficientemente parlato delle regole da seguire per moderare il
piacere annesso alla nutrizione (n. 864),
tratteremo qui solo della castità che regola il diletto unito alla
propagazione della specie. Parleremo appresso di due virtù alleate della
temperanza, l’umiltà e la dolcezza.

 
§ I. Della Castità. 1100-1

1100.   1°
Nozione. La castità
ha per fine di reprimere tutto ciò che vi è di disordinato nei diletti
della voluttà.
Ora questi diletti non hanno che un solo fine, di propagar la
specie umana trasmettendo la vita con l’uso legittimo del matrimonio. Fuori di
questo, ogni voluttà è strettamente proibita.

La castità è meritamente detta virtù
angelica perchè ci avvicina agli
angeli che sono puri per natura. È virtù austera, perchè non si giunge a
praticarla se non disciplinando e domando il corpo e i sensi con la
mortificazione. È virtù delicata, perchè ogni minima debolezza volontaria
l’appanna; e quindi pure difficile, perchè non si può conservare se non
lottando generosamente e costantemente contro la più tirannica delle passioni.

1101.   2°
Gradi. 1) Ha
molti gradi: il primo consiste nel badare attentamente di non
acconsentire
a pensiero, immaginazione, sensazione od azione contrari a
questa virtù.

2) Il secondo mira ad
allontanare immediatamente ed
energicamente ogni pensiero, immagine, o impressione, che potesse
offuscare lo splendore di questa virtù.

3) Il terzo, che generalmente non si acquista se non dopo lunghi sforzi nella
pratica dell’amor di Dio, consiste nell’essere talmente padroni dei sensi e dei
pensieri che, quando si è obbligati a trattar questioni riguardanti la castità,
si fa con tanta calma e tranquillità come se si trattasse di qualsiasi altro
argomento.

4) Vi sono infine di quelli che, per un privilegio speciale, giungono a non
aver più alcun moto disordinato, come si narra di S. Tommaso dopo la
vittoria da lui riportata in una pericolosa circostanza.

1102.   3°
Specie. Vi sono due
specie di castità: la castità
coniugale che conviene alle persone legittimamente coniugate, e la continenza
che conviene a quelle che non lo sono. Dopo aver brevemente trattato della
prima, ci fermeremo sulla seconda, specialmente in quanto conviene alle persone
vincolate dal celibato religioso od ecclesiastico.

 
I. Della castità coniugale.

1103.   1°
Principio. Gli
sposi cristiani non devono mai dimenticare che, secondo la dottrina di
S. Paolo, il matrimonio cristiano è simbolo dell’unione santa che corre tra
Cristo e la Chiesa: “Voi, o uomini, amate le spose, come anche Cristo amò la
Chiesa e diede se stesso per lei, a fine di santificarla” 1103-1. Devono quindi amarsi, rispettarsi,
santificarsi a vicenda. Il primo effetto di quest’amore è l’indissolubile unione
dei cuori e quindi l’inviolabile fedeltà dell’uno verso l’altro.

1104.   2°
Mutua fedeltà. a)
Toglieremo qui ad imprestito le parole di S. Francesco di Sales o ne
compendieremo il pensiero 1104-1.

“Serbate dunque, o mariti, un tenero, costante e cordiale amore verso le
vostre donne… Se volete che le vostre donne vi siano fedeli, insegnateglielo
voi col vostro esempio. Con qual fronte, dice S. Gregorio
Nazianzeno 1104-2, potete esigere pudicizia dalle vostre
spose, se voi vivete nell’impudicizia?” — “Ma voi, o donne, il cui onore è
inseparabilmente unito con la pudicizia e l’onestà, serbate gelosamente la
vostra gloria e non permettete che alcuna specie di dissolutezza offuschi il
candore della vostra riputazione. Paventate ogni specie di assalti per piccoli
che siano, non tollerate corteggiatori attorno a voi. Chiunque venga a lodare la
vostra bellezza o la vostra grazia, vi dev’essere sospetto… che se alla vostra
lode qualcuno aggiunge il disprezzo di vostro marito, grandemente vi offende,
essendo chiaro che non solo vi vuol rovinare, ma che vi stima già mezzo perduta,
perchè si è già a mezza via col secondo mercante quando si è disgustati del
primo”.

b) Nulla garantisce meglio questa mutua fedeltà
quanto la pratica della vera devozione, specialmente poi la preghiera
recitata in comune.

“Quindi le donne devono disederare che i mariti siano confettati collo
zucchero della devozione, perchè l’uomo senza devozione è un animale severo,
aspro e rozzo; e i mariti devono desiderare che le donne siano devote, perchè
senza la devozione la donna è grandemente fragile e soggetta a rovinare o ad
offuscarsi nella virtù.

c) “Del resto, la
mutua sopportazione dell’uno per l’altro
dev’essere così grande che tutt’e due non si corruccino mai insieme e
all’improvviso, affinchè non si veda in loro dissensione e contesa”. Se quindi
uno dei due è in collera, l’altro resti calmo, affinchè torni al più presto la
pace.

1105.   3°
Dovere coniugale.
Gli sposi rispetteranno la santità del letto coniugale con la purità
dell’intenzione
e l’onestà delle relazioni.

A) L’intenzione sarà quella del giovane Tobia quando sposò
Sara: “Voi sapete, o Signore, che non già per soddisfare la passione io prendo
in isposa questa mia cugina, ma per il solo desiderio di lasciar figli che
benedicano il vostro nome in tutti i secoli” 1105-1. Tal è infatti il fine primordiale del
matrimonio cristiano: aver figli che vengano educati nel timore e nell’amore del
Signore, che siano formati alla pietà e alla vita cristiana, onde riescano un
giorno cittadini del cielo. Il fine secondario è di aiutarsi scambievolmente a
sopportare le pene della vita e trionfar delle passioni subordinando il piacere
al dovere.

1106.   B) Si compirà quindi
fedelmente e francamente il dovere coniugale 1106-1; tutto ciò che giova alla trasmissione
della vita non solo è lecito ma onorevole; ma ogni azione che ponesse volontario
ostacolo a questo fine primordiale, sarebbe colpa grave, perchè andrebbe contro
il fine primario del matrimonio. — Si terrà conto di questa raccomandazione di
S. Paolo: “Non vi rifiutate l’un con l’altro, se non forse di comune
accordo per un po’ di tempo, affine di attendere all’orazione; e di nuovo
tornate a stare insieme; chè non abbia a tentarvi Satana per la vostra
incontinenza” 1106-2.

C) Nell’adempimento di questo dovere ci vuole
moderazione come
nell’uso del nutrimento; vi sono anche casi in cui l’igiene e la decenza
richiedono che si pratichi per un dato tempo la continenza. Non ci si riesce se
non quando si è presa l’abitudine di subordinare il piacere al dovere e di
cercare nel frequente uso dei sacramenti rimedio ai violenti desiderii della
consupiscenza. Si ricordi che nulla è impossibile e che con la preghiera si
ottiene sempre la grazia di praticare le virtù anche più austere.

 
II. Della continenza o del celibato.

1107.   La continenza assoluta è un
dovere per tutte le persone che non sono unite dai vincoli di legittimo
matrimonio. Onde dev’essere praticata da tutti prima del matrimonio come pure da
coloro che si trovano nel santo stato di vedovanza 1107-1. Ma vi sono inoltre anime elette
chiamate a praticar la continenza per tutta al vita, o nello stato
religioso
o nel sacerdozio o anche nel mondo. È bene fissare a
queste persone regole speciali per la conservazione della perfetta purità.

La castità è virtù fragile e delicata che non può conservarsi se non è
protetta da altre virtù; è una cittadella che per la sua difesa ha bisogno di
forti avanzati. Questi forti sono quattro:


  • 1° l’umiltà,
    che produce la diffidenza di sè e la fuga delle occasioni pericolose;

  • 2° la
    mortificazione, che, combattendo l’amor del piacere, coglie il male
    alla radice;

  • 3° l’applicazione
    ai doveri del proprio stato
    , che previene i pericoli dell’ozio;

  • 4° l’amor
    di Dio
    , che, appagando il cuore, l’impedisce d’abbandonarsi a
    pericolosi affetti.


Chiusa nel centro di questo quadrilatero,l’anima può non solo respingere gli assalti del nemico ma anche perfezionarsi
nella purità.

 



L’UMILTÀ CUSTODE DELLA CASTITÀ.

1108.   Questa virtù genera
tre principali disposizioni che ci francano da molti pericoli: la
diffidenza di sè e la confidenza in Dio; la fuga delle occasioni pericolose; la
sincerità in confessione.

A) La diffidenza di sè accompagnata dalla
confidenza in
Dio.
Molte anime infatti cadono nell’impurità per la loro superbia e
presunzione. Lo nota S. Paolo parlando dei filosofi pagani, i quali,
gloriandosi della loro sapienza, scivolarono in ogni sorta di turpitudini:
“Propterea tradidit illos Deus in passiones
ignominiae”
 1108-1.

La qual cosa viene così spiegata dall’Olier: “Dio che non può soffrire la
superbia in un’anima, la umilia fino in fondo; e sollecito di farle conoscere la
sua debolezza e mostrarle che non ha potere alcuno da sè per resistere al male e
mantenersi nel bene… permette che sia travagliata da quelle orribili
tentazioni e che talora vi soccomba sino in fondo, essendo esse le più
vergognose di tutte, e lasciando maggior confusione. Quando invece si è persuasi
di non poter essere casti da sè, si ripete a Dio quell’umile preghiera di
S. Filippo Neri: “O mio Dio, non vi fidate di Filippo, che altrimenti vi
tradirà”.

1109.   a) Cotesta diffidenza
dev’essere universale. 1) È necessaria a coloro che già commisero
colpe gravi,
perchè la tentazione tornerà e, senza la grazia, sarebbero
esposti a ricadere; e non meno necessaria è a coloro che serbarono
l’innocenza, perchè un giorno o l’altro la crisi verrà, tanto più
formidabile in quanto che essi non hanno ancora esperienza della lotta.
2) Deve perseverare sino alla fine della vita: Salomone non era più
giovane quando si lasciò vincere dall’amore delle donne; vecchioni erano i due
che tentarono la casta Susanna; il demonio che ci assale nell’età matura è tanto
più terribile perchè si credeva di averlo vinto; e l’esperienza insegna che,
fino a tanto che ci resta un pochino di calore vitale, il fuoco della
concupiscenza, che cova sotto la cenere, si riaccende talora con novello ardore.
3) È necessaria anche alle anime più sante: il demonio ha più brama
di far cader loro che non le anime volgari, e tende quindi più perfide insidie.
Lo notò S. Girolamo 1109-1, concludendone che non bisogna fidarsi
nè dei lunghi anni passati nella castità nè della propria santità o del proprio
senno 1109-2.

1110.   b) Diffidenza però che
dev’essere accompagnata da assoluta confidenza in Dio. Dio infatti non
permetterà che siamo tentati sopra le nostre forze; non ci chiede l’impossibile:
a volte ci dà immediatamente la grazia di resistere alle tentazioni, a volte la
grazia di pregare onde ottener grazia più efficace 1110-1.

Bisogna quindi, dice l’Olier 1110-2, “ritirarsi interiormente in Gesù
Cristo, per trovare in lui la forza di resistere alla tentazione… Egli vuole
che siamo tentati, perchè, avvertiti così della nostra debolezza e del bisogno
che abbiamo del suo aiuto, ci ritiriamo in lui per attingervi la forza che ci
manca”. Se la tentazione si fa più violenta, bisogna gettarsi in ginocchio e
levando le mani al cielo invocar l’assistenza di Dio: “Dico, aggiunge l’Olier,
che bisogna alzare le mani al cielo, non solo perchè questa positura è già una
preghiera presso Dio, ma anche perchè bisogna dar per espressa penitenza di non
toccarsi mai durante questo tempo e di soffrire piuttosto tutti i martirii
interni e tutte le noie della carne e anche del demonio, anzichè toccarsi”.

Prese tutte queste precauzioni, si può fare infallibile
assegnamento sull’aiuto di Dio: “Fidelis est Deus qui non patietur vos
tentari supra id quod potestis, sed faciet etiam cum tentatione proventum”
.
— Onde non bisogna paventar troppo la tentazione prima che arrivi, perchè
sarebbe il mezzo di attirarla; nè quando ci assale, perchè, appoggiandoci su
Dio, siamo invincibili.

1111.   B)
La fuga delle
occasioni pericolose. a
) La mutua simpatia che corre tra le persone
di diverso sesso, causa alle persone votate al celibato occasioni
pericolose; bisogna quindi sopprimere gl’incontri inutili, e allontanarne i
pericoli quando quest’incontri sono necessari 1111-1. Ecco perchè la direzione spirituale
delle donne non deve farsi che in confessionale, come abbiamo già detto, n. 546.
— Due cose dobbiamo tutelare: la nostra virtù e la nostra
riputazione; l’una e l’altra esigono sommo riserbo.

b) I fanciulli che hanno esteriore grazioso, indole allegra e
affettuosa, possono essi pure riuscire occasione pericolosa: si guardano
volentieri, si accarezzano, e, se non si sta attenti, si trascorre a familiarità
che turbano i sensi. È avviso che non si deve trascurare, è una specie
d’ammonimento che Dio ci dà, onde farci capire che è tempo di fermarci, e che si
è anzi già andati troppo oltre. — Rammentiamoci che questi fanciulli hanno
angeli custodi che contemplano la faccia di Dio; che sono tempii vivi della
SS. Trinità e membra di Cristo. Sarà allora più facile trattarli con santo
rispetto, pur mostrando loro molto affetto.

1112.   c) In generale
l’umiltà ci fa schivare il desiderio di piacere, causa, ahime! di molte
cadute. Cotesto desiderio, che nasce nello stesso tempo dalla vanità e dal
bisogno d’affetto, si manifesta col culto esagerato della persona, con le
minuziose cure del vestire, con un contegno lezioso ed affettato, con un modo di
parlare sdolcinato, con sguardi carezzevoli, con l’abitudine di complimentar le
persone per le loro doti esteriori 1112-1. È un fare che dà subito nell’occhio,
specialmente in un giovane chierico, in un sacerdote o in un religioso. Ne va
presto di mezzo la riputazione; e Dio voglia che si corregga prima che ne vada
anche la virtù!

1113.   C) L’umiltà poi ci dà
pure verso il direttore quell’apertura di cuore tanto necessaria per
schivare i tranelli del nemico.

Nella regola tredicesima sul discernimento degli spiriti, S. Ignazio
giustamente dice che “quando il nemico della natura umana si fa con le sue
astuzie e coi suoi artifizi a ingannare un’anima giusta, vuole che essa
l’ascolti e che serbi il segreto. Ma se quest’anima svela tutto a un
illuminato confessore, o ad altra persona spirituale che conosca le fallacie e
le astuzie del nemico, ne resta assai dolente, perchè sa che tutta la sua
malizia resterà impotente, dacchè i suoi tentativi vennero scoperti e messi in
piena luce” 1113-1. Savio consiglio che si applica
soprattutto alla castità: quando si è solleciti di svelare con candore ed umiltà
le tentazioni al direttore, si viene avvisati per tempo dei pericoli che si
possono incorrere, si adoperano i mezzi da lui suggeriti, e una tentazione
svelata è tentazione vinta. Ma se, confidando nei propri lumi, non se ne dice
nulla sotto pretesto che non è peccato, si cade facilmente nei tranelli del
seduttore.

 
2° LA
MORTIFICAZIONE CUSTODE DELLA CASTITÀ.

Abbiamo già esposto la necessità e le principali pratiche della
mortificazione, n. 755-790.
Richiamiamo qui quanto più direttamente si riferisce al nostro argomento. Poichè
il veleno dell’impurità s’insinua attraverso tutte le fessure, bisogna saper
mortificare i sensi esterni, i sensi interni, gli affetti del
cuore.


1114.   A) Il corpo, come
abbiamo detto, n. 771
e ss., ha bisogno d’essere disciplinato e occorrendo castigato per star
sottomesso all’anima: “castigo corpus meum et in servitutem redigo, ne forte
cum aliis prædicaverim ipse reprobus efficiar”
.

Deriva da questo principio la necessità della sobrietà, talvolta anche del
digiuno o di qualche esercizio esteriore di penitenza; come pure la necessità,
in certe occasioni, massime in primavera, di un regime emolliente onde calmare
l’ebollizione del sangue e gli ardori della concupiscenza. Nulla dev’essere
trascurato per assicurare il dominio dell’anima sul corpo. — Via il sonno
troppo prolungato; in generale non è bene rimanere a letto il mattino, quando
uno è sveglio e non può più ripigliar sonno.

Nel corpo ogni senso ha bisogno d’essere mortificato.

1115.   a) Il santo uomo
Giobbe aveva fatto patto cogli occhi di non lasciarli correre su persone che gli
potessero cagionar tentazioni: “Pepigi fœdus cum oculis meis, ut ne cogitarem
quidem de virgine”
 1115-1. L’Ecclesiastico premurosamente
raccomanda di non fissar gli occhi sulle giovani e di stornare lo sguardo dalla
donna elegante: “perchè molti sono sedotti dalla sua bellezza e la passione vi
s’infiamma come il fuoco” 1115-2. Consigli molto ben fondati in
psicologia: lo sguardo eccita la fantasia e accende il desiderio, il desiderio
poi sollecita la volontà, e se questa consente, il peccato entra nell’anima.

1116.   b) La
lingua e
l’udito si mortificano col riserbo nelle conversazioni. Riserbo
che spesso manca anche tra le persone cristiane: l’abitudine di leggere romanzi
e di frequentare il teatro fa che si parli troppo liberamente di molte cose che
si dovrebbero tacere; si tien dietro volentieri ai piccoli scandali mondani;
talora si ride e si scherza su argomenti più o meno scabrosi. Una certa morbosa
curiosità fa che si prenda gusto a queste storielle o piacevolezze; la fantasia
se ne pasce rappresentandosi minutamente le scene descritte; i sensi si
commuovono e spesso la volontà finisce col prendervi colpevole diletto. Ha
dunque ragione S. Paolo di biasimare le cattive compagnie come fonte di
depravazione: “corrumpunt mores bonos colloquia
prava”
 1116-1. Ed aggiunge: “Via le parole disoneste,
le buffonerie, gli scherzi grossolani, che son tutte cose
sconvenienti” 1116-2. L’esperienza infatti dimostra che
anime pure furono pervertite dalla morbosa curiosità eccitata da conversazioni
imprudenti.

1117.   c) Il
tatto poi
è pericoloso in modo particolare, n. 879.

L’aveva ben capito il Perreyve, il quale scriveva: 1117-1 “più che altro, o Signore, io vi
consacro le mani; ve le consacro fino allo scrupolo. Queste mani riceveranno fra
tre giorni la consacrazione sacerdotale. Fra quattro giorni, avranno toccato,
tenuto, portato il vostro corpo e il vostro sangue. Voglio rispettarle,
venerarle come gli strumenti sacri del vostro servizio e dei vostri altari”…
Quando infatti si pensa che il mattino si è tenuto tra le mani il Dio d’ogni
santità, si è più disposti ad astenersi da tutto ciò che potrebbe macchiarne la
purità. Grande riserbo dunque verso se stesso; verso gli altri si usino pure le
ordinarie cortesie, ma si badi a non metterci alcun sentimento appassionato che
tradisca disordinato affetto. A un prete che chiedeva se convenisse toccare il
polso a una moribonda, S. Vincenzo rispose: “Bisogna guardarsi bene
dall’usare questa pratica, perchè lo spirito maligno se ne potrebbe servire per
tentare il vivo e anche la moribonda. Il diavolo in quei momenti fa strale [sic]
di ogni legno per assalire un’anima… Non v’immischiate mai di toccar nessuna
donna nè nubile nè maritata, sotto qualsiasi pretesto” 1117-2.

1118.   B) I sensi
interni non sono meno pericolosi degli esterni, e anche quando chiudiamo
gli occhi, ricordi importuni e insistenti immaginazioni continuano a
perseguitarci. Se ne lamentava S. Girolamo nella solitudine, dove, non
ostante l’ardore del sole e la povertà della cella, si vedeva trasportato dalla
fantasia in mezzo alle delizie di Roma 1118-1. Onde raccomanda insistentemente di
scacciar subito queste immaginazioni: “Nolo sinas cogitationes crescere…
Dum parvus est hostis, interfice; nequitia, ne zizania crescant, elidatur in
semine”
 1118-2. Bisogna soffocar il nemico prima che
diventi adulto e schiantar la zizzania prima che cresca; altrimenti l’anima
viene invasa e assediata dalla tentazione, e il tempio dello Spirito Santo
diventa covo di demoni: “ne post Trinitatis hospitium, ibi dæmones saltent et
sirenæ nidificent”
 1118-3.

1119.   A schivare queste pericolose
immaginazioni, conviene lasciar la lettura di quei romanzi e di quelle opere
teatrali che vivamente e realisticamente descrivono le passioni umane
specialmente la passione dell’amore. Coteste descrizioni non fanno che turbar la
fantasia e i sensi; e ritornano poi persistentemente dando alla tentazione forma
più viva e più seducente e talora strappano il consenso. Ora, come osserva
S. Girolamo, la verginità si perde non solo con gli atti esterni ma anche
con gli interni: “Perit ergo et mente virginitas” 1119-1.

I Santi ci esortano pure a mortificar le immaginazioni e le
fantasie inutili. Infatti l’esperienza insegna che nel vano fantasticare
si insinuano presto immagini sensuali e pericolose, onde, chi vuole prevenirle,
non deve volontariamente abbandonarcisi. Si riesce così a poco a poco a mettere
l’immaginazione al servizio della volontà.

Cosa particolarmente necessaria al sacerdote, che, in virtù della stessa sua
professione, riceve confidenze su materie delicate. È vero che ha le grazie
particolari del suo stato per non compiacervisi, ma a patto che, uscito dal
confessionale, non ritorni volontariamente su ciò che ascoltò; altrimenti la sua
virtù subirà dura prova, e Dio non si è obbligato a soccorrere gl’imprudenti che
vanno a cercare i pericoli: “qui amat periculum in illo
peribit”
 1119-2.

1120.   C) Il
cuore ha
pur bisogno di essere mortificato quanto la fantasia. È una delle più nobili ma
anche delle più pericolose facoltà. Coi voti o col sacerdozio consacriamo il
cuore a Dio e rinunziamo alle gioie della famiglia. Ma questo cuore resta aperto
agli affetti, e se abbiamo grazie speciali per ben disciplinarlo, sono grazie di
combattimento che richiedono da parte nostra vigilanza molta e sforzi
molti.

Oltre ai pericoli comuni il sacerdote ne trova di particolari nell’esercizio
del ministero. Senz’accorgersene uno si affeziona alle persone a cui si fa del
bene; e queste da parte loro si sentono portate ad esprimerci la loro
riconoscenza. Quindi mutui affetti, da principio soprannaturali, ma che, se non
stiamo in guardia, diventano facilmente naturali, sensibili, invadenti. È cosa
facile l’illudersi: “Spesso, dice S. Francesco di Sales, pensiamo di amare
una persona per Dio e invece l’amiamo per noi stessi; diciamo di amarla per Dio
ma in realtà l’amiamo per la consolazione che proviamo trattando con lei”. Un
celebre testo, attribuito a S. Agostino, ci mostra i vari gradi onde si
passa dall’amore spirituali all’amore carnale: “Amor spiritalis generat
affectuosum, affectuosus obsequiosum, obsequiosus familiarem, familiaris
carnalem”
.

1121.   A schivare tanta sventura,
bisogna esaminarsi ogni tanto e vedere se troviamo in noi qualcuno dei segni
caratteristici di amicizia troppo naturale e sensibile. Il P. di Valuy li
compendia così 1121-1: “Quando il viso d’una persona comincia
a cattivarsi gli occhi o l’indole sua simpatica commuove e fa palpitare il
cuore. Saluti teneri, parole tenere, sguardi teneri, regalucci sempre
crescenti… Certi scambievoli sorrisi più eloquenti delle parole; un certo fare
libero che tende a poco a poco alla familiarità; favori e riguardi premurosi,
offerte di servizio, ecc. Procurarsi conversazioni segrete dove nessun occhio e
nessun orecchio dia noia; continuarle a lungo e ripeterle senza motivo. Parlar
poco delle cose di Dio e molto di sè e della mutua amicizia. — Lodarsi,
adularsi, scusarsi a vicenda. — Lagnarsi amaramente degli avvisi dei superiori,
degli ostacoli che mettono a quei colloqui, dei sospetti che pare che abbiano…
— Nell’assenza della persona amica provare inquietudine e tristezze. — Nelle
preghiere venir distratti dalla sua memoria, raccomandarla talora a Dio con
fervore straordinario, averne l’immagine profondamente scolpita nel cuore,
pensarci il giorno, la notte, sognarla anche. — Informarsi ansiosamente dov’è,
che cosa fa, quando ritornerà, se non ha affetto per altri. — Al suo ritorno
sentir trasporti di gioia straordinaria. — Soffrire una specie di martirio nel
doversene di nuovo separare. Studiar mille astuzie per aver l’occasione di
rivederla”.

Non si confidi troppo sulla pietà delle persone con cui si è
legati d’amicizia; perchè quanto più sono sante, tanto più sono attraenti,
“quo sanctiores sunt, eo magis alliciunt”. D’altra parte queste persone
pensano che l’affetto verso un sacerdote non abbia nulla di pericoloso e vi si
abbandonano senza timore; bisogna quindi che il sacerdote sappia tenerle a
rispettosa distanza.

 

L’APPLICAZIONE AGLI STUDI E AI DOVERI DEL PROPRIO
STATO.

1122.   Una delle più utili
mortificazioni è la fuga dell’ozio, applicandosi con ardore agli studi
ecclesiastici e al fedele adempimento dei doveri del proprio stato. Si rimuovono
così i pericoli dell’ozio: multam malitiam docuit
otiositas
 1122-1. Se a tentare chi è occupato c’è un
demonio, a tentare chi è ozioso ce ne sono cento. Che si fa infatti quando non
si è utilmente occupati? Si va fantasticando, si leggono libri leggeri, si fanno
lunghe visite, si tengono conversazioni più o meno pericolose, l’immaginazione
si riempie di vani fantasmi, il cuore s’abbandona ad affetti sensibili, e
l’anima, aperta a tutte le tentazioni, finisce col soccombere. Invece, quando
uno s’applica seriamente allo studio o alle opere del ministero, la mente si
riempie di buoni e salutari pensieri 1122-2, il cuore si volge a nobili e casti
affetti; non si pensa che alle anime; e la stessa moltiplicità delle occupazioni
ci mette nella fortunata necessità di non avere alcuna intimità con questa o con
quella persona. Se in un dato momento la tentazione si presenta, la padronanza
acquistata col lavoro assiduo sopra se stesso, aiuta a voltarle presto le
spalle; lo studio, il ministero ci chiamano, onde si lasciano presto da parte le
vane fantasie per attendere a cose reali che occupano il meglio della nostra
vita.

1123.   Gran servizio si rende dunque ai
seminaristi e ai sacerdoti insegnando loro ad amare lo studio, a fuggir l’ozio
anche durante le vacanze, a sapere utilizzar tutti gli istanti della vita.
Quando si può aiutarli a farsi un programma di studi per il ministero, a
preparare un corso di istruzioni, a prendere interesse a qualche questione
speciale, si rende loro un buon servizio. Se non si ha un programma formato
prima, si corre pericolo di sciupare il tempo; con un programma ben fatto uno si
mette al lavoro con molto maggior ardore e perseveranza.

 

L’AMORE ARDENTE PER GESÙ E PER LA SUA SANTA MADRE.

1124.   Se il lavoro ci preserva la
mente dai pericolosi pensieri, l’amor di Dio ci preserva il cuore dagli affetti
sensibili, e ci risparmia così molte tentazioni.

Il cuore dell’uomo è fatto per amare; il sacerdozio o lo stato religioso non
ci toglie questo lato affettivo della nostra natura, ma ci aiuta a renderlo
soprannaturale. Se amiamo Dio con tutta l’anima, se amiamo Gesù sopra tutte le
cose, sentiremo meno il desiderio d’espanderci nelle creature. È ciò che nota
S. Giovanni Climaco: “Virtuoso è colui che ha talmente impresse nell’animo
le celesti bellezze da non degnarsi neppure di gettar lo sguardo sulle bellezze
della terra, onde non risente l’ardore di quel fuoco che infiamma il cuore
altrui” 1124-1.

1125.   Ma per ottener questo effetto,
l’amore di Gesù dev’essere ardente, generoso, predominante. Allora infatti
produce un triplice vantaggio: 1) riempie talmente la mente e il cuore che
poco più si pensa agli umani affetti; e se avviene talora che facciano capolino,
si mettono bellamente alla porta con quelle parole di S. Agnese: “Ipsi
sum desponsata cui Angeli serviunt, cujus pulchritudinem sol et luna
mirantur”
. È chiaro che, di fronte a Colui che possiede la pienezza della
beltà, della bontà e della potenza, tutte le creature scompaiono e perdono ogni
attrattiva. 2) Ma poi Gesù, che non può soffrire idoli nel nostro cuore, ci
rimprovererà vivamente gli affetti naturali se abbiamo la disgrazia di cadervi,
e sotto la sferza dei suoi rimproveri saremo più forti a combatterli.
3) Infine egli stesso protegge con cura gelosa il cuore di coloro che si
danno a lui; ci verrà quindi in aiuto al momento della tentazione, porgendoci
forza contro le seduzioni delle creature.

Questo amore generoso per Gesù si attinge nell’orazione,
nelle ferventi comunioni e nelle visite al SS. Sacramento; e vien reso
abituale e permanente con quella vita di intima unione con Nostro Signore da noi
descritta al n. 153.

1126.   Vi si aggiunge grande
devozione alla Vergine Immacolata; nome che spira purità, onde pare che il solo
fiducioso invocarlo metta già in fuga la tentazione. Se poi intieramente ci
consacriamo a questa Buona Madre (n. 170-176),
allora ci vigila come cosa sua, come sua proprietà, e ci aiuta a respingere
vittoriosamente anche le più tempestose tentazioni. Recitiamo dunque volentieri
la preghiera O Domina tanto efficace contro le impure suggestioni,
l’Ave maris stella, principalmente la strofa:


Virgo singularis,

Inter omnes mitis,
Nos culpis
solutos,

Mites fac et castos.



Che se mai restassimo vinti nella lotta, non dimentichiamo
che l’Immacolato Cuore di Maria è nello stesso tempo sicuro rifugio dei
peccatori; che, invocandolo, troveremo la grazia del pentimento, seguita dalla
grazia dell’assoluzione; e che nessuno meglio della Vergine fedele può
garantirci la perseveranza.

 

NOTE

1099-1 S. Tommaso, IIª
IIæ, q. 141-170; Scaramelli, Direttorio
ascetico,
Tr. III, art. 4; Ribet, Vertus,
c. XLIII-XLVIII; C. de Smedt, t. II, p. 268-342;
P. Janvier, Quaresimale 1921 e 1922 (Marietti, Torino).

1100-1 Cassiano,
Conf. XII; S. G. Climaco, Scala, gradino XV;
S. Tommaso, IIª IIæ, q. 151-156;
Rodriguez, P. III, tr. IV, Della castità; S. Fr. di
Sales,
La Filotea, P. III, c. XII, XIII;
J. J. Olier, Introd., c. XII;
S. Alfonso, Selva, P. II, Istruzione IIIª, Castità del
sacerdote; Mgr Gay, Vita e virtù, tr. X; Valuy, Vertus religieuses, Chasteté;
P. Desurmont, Charité
sacerdotale,
§ 77-79; Mgr Lelong, Le saint Prêtre,
Conf. 12ª.

1103-1 Ephes., V, 25.

1104-1 La Filotea,
P. IIIª, c. XXXVIII.

1104-2 Oraz. XXXVII, 7.

1105-1 Tob., VIII, 9.

1106-1 S. Fr. di Sales,
La Filotea, P. IIIª, c. XXXIX.

1106-2 I Cor., VII, 5.

1107-1 Si vedano gli ottimi consigli
di S. Fr. di Sales alle vedove, La Filotea, P. IIIª,
c. XL.

1108-1 Rom., I, 26.

1109-1 Epistola XXII, ad
Eustochium, P. L., XXII, 396.

1109-2 Ep. LII, ad
Nepotianum, P. L., XXII, 531-532: “Nec in præteritâ castitate
confidas; nec David sanctior, nec Salomone potes esse sapientior. Memento semper
quod paradisi colonum de possessione suâ mulier ejecerit”.

1110-1 “Nam Deus impossibilia non
jubet, sed jubendo monet et facere quod possis, et petere quod non possis, et
adjuvat ut possis”. (Trident., sess. VI, c. II, Denz.,
804).

1110-2 Introd., c. XII.

1111-1 È quello che raccomandava già
S. Girolamo al suo caro Nepoziano: “Hospitiolum tuum aut raro aut nunquam
mulierum pedes terant… Si propter officium clericatus, aut vidua a te
visitatur, aut virgo, nunquam solus introeas. Tales habeto socios quorum
contubernio non infameris… Solus cum solâ, secreto et absque arbitro vel
teste, non sedeas… Caveto omnes suspiciones, et quidquid probabiliter fingi
potest, ne fingatur, ante devita. (Epist. LII, P. L.,
XXII, 531-532).

1112-1 S. Girolamo descrive molto
bene queste stranezze: “Omnis his cura de vestibus, si bene oleant, si pes, laxâ
pelle, non folleat. Crines calamistro vestiglio rotantur; digiti de annulis
radiant: et ne plantas humidior via aspergat, vix imprimunt summa vestigia.
Tales cum videris, sponsos magis æstimato quam clericos”.
(Epist. XXII, P. L., XXII, 414).

1113-1 Esercizi spirituali.

1115-1 Job, XXXI, 1.

1115-2 Eccli., IX, 5, 8, 9:
“Virginem ne conspicias ne forte scandalizeris in decore illius… Averte faciem
tuam a muliere comptâ, et ne circumspicias speciem alienam. Propter speciem
mulieris multi perierunt, et ex hoc concupiscentia quasi ignis exardescit”.

1116-1 I Cor., XV, 33.

1116-2 Ephes., V, 4.

1117-1 Meditazioni sui SS. Ordini,
p. 105, ed. 1874.

1117-2 Saint Vincent de Paul,
Correspondance, Entretiens, Documents, par Pierre Coste, Tom. II, p. 523,
Paris, Lecoffre et Gabalda, 1921.

1118-1 “O quoties ego ipse in eremo
constitutus, et in illâ vastâ solitudine quæ exusta solis ardoribus, horridum
monachis præstat habitaculum, putabam me Romanis interesse deliciis”.

1118-2 Epist. XXII, n. 7.
P. L., XXII, 398.

1118-3 S. Hieronymi,
Epist. XXII, n. 6, P. L., 398.

1119-1 Epist. cit. n. 5.

1119-2 Eccli., III, 27.

1121-1 Vertus religieuses, p.
73, 74.

1122-1 Eccli., XXXIII, 29.

1122-2 Ama scientiam Scripturarum et
carnis vitia non amabis… Facito aliquid operis, ut te semper diabolus inveniat
occupatum”. S. Girolamo, Lettera CXXV, P. L.,
XXII, 1078.

1124-1 La Scala, Scalino XV,
7.

 

 


Quest’edizione digitale preparata da Martin Guy
(martinwguy@yahoo.it).

Ultima revisione: 1 febbraio 2006.